Come sono andate le elezioni locali taiwanesi, i personaggi e le prime manovre dei partiti in vista delle presidenziali 2024. Poi Biden allo stabilimento TSMC in Arizona, ritardo sulle armi americane e frizioni col Vietnam nel mar Cinese meridionale. La rassegna settimanale di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
Sabato 26 novembre si sono svolte le elezioni locali della Repubblica di Cina, Taiwan. Come previsto dagli ultimi sondaggi prima del silenzio elettorale, ha vinto in maniera netta il Guomindang (GMD), il principale partito di opposizione (qui lo speciale Taiwan Files in previsione del voto e qui la cronaca della giornata del voto da Taipei). La sconfitta ha portato la presidente Tsai Ing-wen a dimettersi dalla guida del Partito progressista democratico (DPP). Un passo indietro che avrà conseguenze sugli equilibri interni del partito di maggioranza e sui suoi processi di individuazione dei candidati per le cruciali elezioni presidenziali del 2024. Il voto è stato seguito con attenzione dalla Repubblica popolare cinese, che ha già sfruttato l’esito delle urne per sostenere che i taiwanesi hanno bocciato la linea assertiva di Tsai nei rapporti con l’altra sponda dello Stretto, promuovendo invece quella molto più dialogante del GMD. In realtà, gli elettori si sono concentrati su temi locali più che sul “fattore Pechino” ed è ancora presto per capire se ci sarà un effetto diretto tra la tornata elettorale locale e quella presidenziale. Nel 2020 non fu così.
Qui una lunga analisi scritta per ISPI.
Quattro delle 6 municipalità speciali sono andate al Gmd, vittorioso come previsto anche a Taichung e Nuova Taipei, dove la netta riconferma rafforza le quotazioni dell’ex poliziotto Hou Yu-ih per la candidatura alle presidenziali del 2024. Conquistata anche Taoyuan, dove il Partito progressista democratico (Dpp) si è auto sabotato col cambio in corsa del candidato causa plagio accademico.
Il Dpp totalizza il risultato più negativo dei suoi 36 anni di storia alle elezioni locali, con 5 affermazioni su 22. Ancora peggio delle 6 del 2018, quando il voto fu considerato una débacle. La presidente Tsai Ing-wen si è assunta “tutte le responsabilità” della sconfitta, rassegnando le dimissioni con effetto immediato dalla presidenza del partito. Tsai aveva cercato di nazionalizzare il voto e si era spesa in prima persona sulla scelta dei candidati.
In totale, il GMD ha ora il controllo di 13 delle 22 municipalità tra città, contee e municipalità speciali. Potrebbero diventare 14 il 18 dicembre, quando si voterà per la città di Chiayi. Un numero uguale a quello conquistato nel 2018, ma dal peso specifico ben diverso. Vero che il GMD perde la guida di Miaoli e Kinmen, passati a due candidati indipendenti, e delle isole Penghu, passate al DPP. Ma Taipei e Taoyuan sono un’altra storia. Anche la città di Keelung è stata sfilata al DPP.
I fattori decisivi del risultato sono prettamente interni e il successo del Gmd non significa che i taiwanesi abbiano bocciato la linea del governo sui rapporti con Pechino. Fra 13 mesi non potranno andare alle urne i minori di 20 anni, visto che il referendum per abbassare l’età del diritto di voto a 18 anni è stato bocciato. Ulteriore sconfitta per il Dpp, che gode tradizionalmente del favore degli elettori più giovani.
Chi è Chiang Wan-an, il nuovo sindaco di Taipei
“Perché sono felice che abbia vinto? Perché è bravo, giovane e calmo”. Dice proprio così Chi-hui, 36enne elettrice di Chiang Wan-an, mentre partecipa ai festeggiamenti davanti al quartier generale del nuovo sindaco di Taipei: “calmo”. Il Guomindang celebra la netta vittoria alle elezioni locali di Taiwan, che mettevano in palio 22 municipalità. La sfida principale era quella della capitale, vinta con oltre il 42% dei voti dal pronipote di Chiang Kai-shek. Dopo l’esperienza tragicomica del populismo urlato di Han Kuo-yu, gli elettori del principale partito d’opposizione sentono di aver trovato un volto presentabile. Nonostante la pesante eredità familiare che fa storcere il naso a moltissimi taiwanesi.
Wayne Chang andava al liceo, quando una sera suo padre gli ha detto che aveva qualcosa di importante da dirgli. Quella sera, Wayne scoprì di essere il pronipote di Chiang Kai-shek. E che suo padre era il figlio illegittimo di Chiang Ching-kuo, primo erede della dinastia politica del grande sconfitto della guerra civile cinese. Un adolescente taiwanese che scopre di essere il figlio dell’uomo che ha governato per decenni Taiwan a capo del partito unico del Guomindang, imponendo una severa legge marziale. Soffocando qualsiasi tipo di opposizione.
Oggi Wayne ha 43 anni e si chiama Chiang Wan-an. Ha da tempo cambiato il nome in onore del celebre antenato ed è ora sindaco di Taipei. Un ruolo tradizionalmente anticamera della presidenza. Tre dei 4 presidenti democraticamente eletti dal 1996 sono stati primi cittadini della capitale: Lee Teng-hui, Chen Shui-bian e Ma Ying-jeou. Solo l’attuale leader Tsai Ing-wen sfugge alla regola.
Chiang, un passato come avvocato corporate negli Usa, si presenta come uomo del dialogo: nato e cresciuto a Taipei, già dall’alba della sua campagna elettorale ha puntato sul rifiuto dell’approccio populista che aveva caratterizzato altre figure del suo partito. Per il cognome che porta, Chiang sa che ogni sua parola può essere passata ai raggi x. Per questo ha scelto di mantenere una linea calma ma decisa, anche sulle relazioni con Pechino. In un dibattito, rispondendo a una domanda sulla posizione su Taiwan espressa da Elon Musk, ha risposto che ha intenzione di “difendere la dignità della Repubblica di Cina”, il nome con cui Taiwan è indipendente de facto. C’è anche chi guarda a lui (soprattutto all’esterno di Taiwan, per la verità) per una candidatura alle presidenziali del 2024, ma sembra davvero troppo presto. Ha prima bisogno di svolgere almeno un primo mandato intero da primo cittadino.
Che cosa cambia nel Guomindang
Come previsto, il GMD si è affermato in maniera netta anche a Nuova Taipei, dove l’attuale presidente del partito Chu è stato eletto sindaco nel 2010 e nel 2014. Qui è stato confermato Hou Yu-hi: direttore generale dell’Agenzia nazionale di polizia tra il 2006 e il 2008, gode di un’ottima popolarità presso gli elettori. Secondo molte voci, sarebbe proprio lui l’opzione preferita dal GMD per la corsa alle presidenziali del gennaio 2024. Hou non ha ancora sciolto la riserva, ma il managemente del partito nazionalista avrebbe intravisto in lui la figura giusta, anche perché non “compromessa” sul tema Pechino. Il possibile ticket potrebbe peraltro essere completato da Lu Shiow-yen, che si è affermata nel tradizionale feudo del GMD di Taichung.
Il GMD è chiamato però a non illudersi che l’esito del voto locale abbia rilevanza eccessiva in vista delle presidenziali. Nel 2024 tornerà a pesare maggiormente il tema identitario, su cui il DPP parte in vantaggio e il GMD deve ancora ritrovare una posizione “potabile” per la maggioranza dell’elettorato, viste le sue ambiguità (o quantomeno percepite come tali) in merito al dialogo con Pechino e al “consenso del 1992”, frutto di un accordo tra GMD e PCC sull’esistenza di una “sola Cina” senza però stabilire quale fosse, precondizione fissata da Xi per riavviare il dialogo che era culminato con l’incontro storico di Singapore col suo predecessore Ma Ying-jeou.
Proverà a fare leva sulla possibile candidatura di William Lai per il DPP e la sua presunta “imprevedibilità”. L’ex presidente Ma Ying-jeou ha detto in campagna elettorale di “scegliere la pace e non la guerra”. E il partito sta provando a riaccreditarsi anche presso Washington come unica scelta possibile per riportare stabilità. Le elezioni sono ancora lontane, ma il GMD sta già provando a capire che linea intraprendere: potrebbe essere un’idea quella di insistere maggiormente sulla possibile “rottura” che porterebbe Lai (qualora sia lui il candidato) piuttosto che sulle differenze tra il futuro candidato del GMD e Tsai, figura che ai taiwanesi piace più del DPP stesso. Per semplificare molto e tarando le enormi differenze su cui torneremo più avanti: un po’ come accaduto in Germania, dove Olaf Scholz alle elezioni del 2021 si è presentato in continuità con Angela Merkel.
Che cosa cambia nel Dpp
Il DPP ha totalizzato il risultato più negativo dei suoi 36 anni di storia alle elezioni locali, con 5 affermazioni su 22. Ancora peggio delle 6 del 2018, quando il voto fu considerato una débacle. Le affermazioni sono praticamente solo nella parte sud occidentale di Taiwan, tradizionalmente più filo indipendentista. Mantenuto il controllo sia di Tainan sia di Kaohsiung tra le municipalità speciali, così come delle contee di Pingtung e Chiayi. Conquistate le isole Penghu, le più vicine alla linea mediana sullo Stretto. Per il resto, solo sconfitte.
Tsai si è assunta piena responsabilità e si è dimessa dalla presidenza del partito, anche perché si era spesa in prima persona sulla scelta dei candidati e su una linea in cui aveva provato a far valere i temi identitari. Cosa che funziona bene alle presidenziali, meno alle elezioni locali. Secondo quanto ci risulta, in molti dentro il DPP individuano proprio nei temi sbagliati della campagna i motivi della sconfitta.
Il passo indietro di Tsai rimette in discussione il processo di nomina dei candidati, con la corrente più radicale del vicepresidente e probabile candidato in pectore William Lai che potrebbe avere maggiore influenza. Dopo la sconfitta alle elezioni locali del 2018, proprio Lai sembrava sul punto di operare una scissione del DPP, in conflitto con la corrente più moderata di Tsai. Tutto rientrò con la promessa della moderata Tsai di garantire a Lai il ruolo di vicepresidente al voto del 2020, una posizione tradizionalmente anticamera alla candidatura da presidente alla successiva tornata elettorale. La frattura si ricompose anche grazie alla contingenza che si era venuta a creare, improvvisamente favorevole per il DPP in vista delle presidenziali.
Ora Lai potrebbe assumere un controllo più diretto delle operazioni, anche se esiste da tempo la suggestione di una candidatura per Hsiao Bi-khim, rappresentante di Taipei negli Stati Uniti. Un nome più vicino a Tsai, inserito per altro di recente nella “lista nera” dei “secessionisti” da parte di Pechino. La parte moderata del DPP non è convinta di Lai, nonostante abbia istituzionalizzato le sue posizioni dopo essere diventato vicepresidente. Difficile però non ricordare il suo passato radicale. Non se lo scorda Pechino, che ha osservato con molto fastidio i suoi movimenti in Giappone in occasione della morte di Shinzo Abe lo scorso luglio. Non se lo scordano in realtà neanche i taiwanesi: la stragrande maggioranza di loro vuole il mantenimento dello status quo e Lai potrebbe essere percepito come un candidato un po’ troppo radicale anche dagli elettori meno radicali del DPP.
L’impatto nei rapporti con Pechino e Washington
Già nel 2018, Pechino fece un errore, interpretando il successo del GMD e la sconfitta del DPP come un segnale che i taiwanesi si fossero espressi a favore del “consenso del 1992” disconosciuto da Tsai e di un maggiore dialogo con la Repubblica popolare. Secondo diverse ricostruzioni, in quel momento Xi Jinping si sente convinto di poter risolvere la questione taiwanese. Nel discorso di inizio anno 2019, Xi utilizza parole molto dure su Taiwan, non escludendo l’utilizzo della forza e ribadendo che l’unico modello possibile è “un paese, due sistemi” in vigore a Hong Kong. Qualche mese dopo, però, iniziano le proteste nell’ex colonia britannica. A cui fanno seguito una dura repressione e l’introduzione della legge di sicurezza nazionale che di fatto erode quel modello. Come già dimostrato in passato, più Pechino mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano.
Sui media di stato della Repubblica Popolare, sono subito apparsi commenti in linea con quanto scritto nel 2018. Resta da vedere se il governo avrà tratto la giusta lezione da quanto accaduto tra 2019 e 2020 per non ripetere gli stessi errori. “L’esito del voto dà a Pechino la possibilità di giustificare maggiore pazienza strategica”, dice Wen Ti-sung dell’Australian National University. Così come le dimissioni di Tsai le consentono di presentarla come una leader che ha perso legittimità. In realtà, Tsai continua a piacere più del DPP ai taiwanesi e il mancato dialogo di questi anni con la leader più moderata mai prodotta dal DPP rischia di restare un’occasione persa.
Biden allo stabilimento TSMC in Arizona
Il 6 dicembre il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si recherà presso l’impianto di TSMC, produttore di chip taiwanese e assoluto leader globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio (con oltre il 50% dello share, dato che si alza ancora in relazione ai chip di ultima generazione). Il più grande produttore di chip a contratto del mondo sta costruendo un impianto da 12 miliardi di dollari a Phoenix, in Arizona.
Dovrebbe essere presente anche Morris Chang, il fondatore del colosso taiwanese (qui un suo ritratto). Morris Chang ha peraltro appena incontrato Xi Jinping una decina di giorni fa al summit APEC in Thailandia, il dialogo a più alto livello tra le due sponde dello Stretto di Taiwan da tempo immemore.
Il fondatore della Tsmc ha peraltro dichiarato la scorsa settimana che l’azienda sta pianificando di produrre chip con tecnologia avanzata a 3 nanometri nel suo nuovo stabilimento di Phoenix, ma i piani non sono ancora completamente finalizzati. La fabbrica di TSMC in Arizona ha suscitato preoccupazioni a Taiwan, dove la produzione di semiconduttori è la spina dorsale dell’economia, per una tendenza all'”addio a Taiwan” tra le aziende di chip. TSMC, che produce la maggior parte dei suoi chip a Taiwan, sta costruendo anche una fabbrica in Giappone.
A Taiwan sono però preoccupati che le manovre statunitensi contribuiscano a erodere la leva tecnologica e diplomatica nei confronti di Pechino, tanto che in conferenza stampa il ministero dell’Economia ha dovuto tranquillizzare dicendo che andranno negli Usa “solo” 500 ingegneri a fronte di “50 mila che restano” operativi a Taiwan.
Altre cose
Taipei ha espresso le proprie condoglianze per la morte di Jiang Zemin.
Joel Wuthnow torna sulla composizione della Commissione militare centrale di Pechino.
Secondo il South China Morning Post, c’è confusione tra Washington e Pechino sul significato e posizionamento delle “linee rosse” su Taiwan.
Report made in Usa sulle possibili strategie militari di Pechino sullo Stretto.
Taipei starebbe ricevendo delle armi in ritardo dagli Usa a causa della guerra in Ucraina, Taipei minimizza. Qui un’analisi di Ryan Hass sul “fattore tempo”.
Per quanto spesso ce ne si scordi, anche la Repubblica di Cina (Taiwan) è coinvolta in diverse dispute territoriali nei mari cinesi. Nuove frizioni col Vietnam per le esercitazioni militari nei pressi di Taiping, la maggiore isola delle Spratly per estensione che è proprio sotto il controllo di Taipei.
Per Gariwo, in occasione delle elezioni locali taiwanesi, ho scritto un ritratto di Lee Teng-hui, primo presidente eletto direttamente dai cittadini nel 1996.
Su il Manifesto un’intervista a Chi Ta-wei, autore del bellissimo romanzo “Membrana”, da poco uscito in versione italiana con add editore.
Di Lorenzo Lamperti
Taiwan Files – Speciale elezioni locali
Qui per recuperare tutte le puntate di Taiwan Files
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.