Taiwan Files – Lai presidente ma senza maggioranza. Bilancio e scenari

In Asia Orientale, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

La vigilia del voto, il weekend elettorale, le 48 ore post urne. Con bilanci, scenari, interviste, voci da Taipei e la prospettiva cinese secondo Da Wei. Tutti i contenuti a cura di Lorenzo Lamperti da Taipei (e dintorni)

Le 48 ore post voto

Proprio mentre il presidente eletto Lai Ching-te accoglie una delegazione di ex alti ufficiali degli Stati uniti, meno di 48 ore dopo aver vinto le presidenziali di sabato, il ministero degli Esteri di Taipei è costretto ad ammainare un’altra bandiera. Nell’ormai sempre più esigua lista degli alleati diplomatici ufficiali di Taiwan, infatti, non figura più Nauru. Il piccolo paese dell’Oceania è il decimo ad aver rotto le relazioni con Taipei in otto anni, da quando il Partito progressista democratico (Dpp) è tornato al potere con Tsai Ing-wen, la presidente uscente.

Il tempismo non potrebbe essere più chiaro, così come quando l’Honduras aveva compiuto lo stesso passo pochi giorni prima del doppio transito negli Usa di Tsai sulla via dell’America latina, lo scorso aprile. Mentre Lai parla di rafforzamento delle partnership internazionali, la Cina continentale continua a erodere lo spazio diplomatico ufficiale di Taipei, in una indiretta dimostrazione di forza anche alla stessa Washington dopo aver contestato le felicitazioni di Antony Blinken a Lai su X come una “grave violazione del principio della unica Cina e un pericoloso messaggio alle forze separatiste”. Dall’altra parte, però, Taiwan porta a casa diversi comunicati più o meno cauti dai paesi del G7 e soprattutto le inusuali congratulazioni dirette del presidente filippino Ferdinand Marcos Junior, sempre più ai ferri corti con Pechino sulle dispute territoriali nel mar Cinese meridionale.

Eppure, per le strade di Taipei non si respira questo clima da grandi manovre internazionali. Non c’è la sensazione di aver compiuto una scelta decisiva. Forse abituati a stare al centro delle ambizioni contrapposte delle grandi potenze, i taiwanesi si concentrano semmai sui possibili equilibri dello yuan legislativo, il parlamento unicamerale che si insedierà il 1° febbraio. Tutte le attenzioni sono sui movimenti di Ko Wen-je, il terzo incomodo alle presidenziali che nonostante i soli 8 seggi sa di avere tante buone carte in mano. Sarà in sostanza lui a essere l’ago della bilancia nei prossimi anni. I due partiti tradizionali provano a portarlo dalla loro parte. Il Guomindang (Gmd) prova a far valere l’accordo di massima per una coalizione parlamentare post voto e, facendo pesare la sua maggioranza relativa con 52 seggi, pretende la nomina del suo “super guerriero” Han Kuo-yu alla guida del parlamento. Dall’altra parte, il Dpp propone un candidato di bandiera ma manda segnali che potrebbe accettare anche un nome del Tpp per scavare un solco tra le due anime dell’opposizione.

Ko si tiene aperte tutte le opzioni. Sa che non vuole finire assorbito dall’opposizione “bellica” del Gmd, che potrebbe assumere toni da trincea con l’aggressivo Han a dirigere i lavori parlamentari. Ma sa anche che non può certo appiattirsi sul Dpp, da cui spera invece di continuare ad assorbire voti come fatto sabato, soprattutto quelli dei più giovani. D’altronde lui stesso sabato, poco dopo la sconfitta, ha detto ai suoi fan che nel 2028 sarà “senz’altro” presidente. Altri interrogativi sul futuro del Gmd, che rischia di poter sfruttare poco il successo alle legislative e rischia di venire spolpato da Ko. C’è già chi chiede un cambio di leadership interno, con gli “anziani” che però sarebbero ancora da convincere. Tra coloro che scalpitano, per ora con ordine, anche Chiang Wan-an, sindaco di Taipei e pronipote di Chiang-Kai shek.

Solo i media più vicini al Partito progressista democratico (Dpp) di Lai parlano di “sconfitta elettorale per la Cina”. I quotidiani di riferimento dell’opposizione parlano di “piccola vittoria”, dando risalto alla sconfitta del Dpp alle legislative. Cna parla di “elezioni noiose” come segnale di “maturità” e “stabilità” del sistema democratico. Chi pensa di più a Pechino sono le aziende e il mondo del business, da cui è partita la richiesta a Lai di rivedere le sue politiche sulle relazioni intrastretto: “Servono cooperazione e dialogo”, si ripete. Anche dal parco tecnologico di Hsinchu, la capitale mondiale della fabbricazione di microchip (citate da Lai nel discorso da presidente eletto come elemento di stabilità). Forse non siamo ancora alla resa dei conti, ma anche per i taiwanesi i conti devono tornare.

Nel frattempo, nonostante le speranze dei taiwanesi, le manovre delle grandi potenze sono destinate a proseguire. La delegazione inviata dalla Casa bianca (che ha incontrato anche gli esponenti dell’opposizione) ha dato manifestazioni di sostegno pubbliche, ma a porte chiuse avrebbe chiesto a Lai ulteriori garanzie sul mantenimento dello status quo. Il presidente della Camera dei Rappresentanti Usa Mike Johnson (che non dovrebbe avere viaggi a Taipei in agenda nel breve periodo, al contrario di Nancy Pelosi e dello stesso Kevin McCarthy che alla fine incontrò Tsai in California), ha già preannunciato una nuova delegazione congressuale dopo l’insediamento di Lai in programma il 20 maggio. Dopo aver “conquistato” Nauru, invece, Xi Jinping scrive in un articolo in pubblicazione sulla rivista teorica del Partito comunista Qiushi che vanno “conquistati i cuori” dei taiwanesi. In attesa di altri ingredienti nel variegato menù della reazione alle urne.

Già nel giorno dopo il voto, a Taipei non si respirava un clima da resa dei conti. Ne ho parlato qui con Francesco Radicioni.

La vigilia del voto

Facciamo un passo indietro, alle ore precedenti le urne.  Alla vigilia del voto avevo fatto due interviste dai quartieri generali dei due principali partiti, DPP e KMT. Ne metto qui sotto i due brevi incipit, si trovano complete su La Stampa di sabato 13 gennaio.

Bandierine arcobaleno e giubbotti verdi con la scritta “Team Taiwan”. C’è fermento nel quartier generale del tradizionalmente filo indipendentista Partito progressista democratico (DPP), ironicamente situato su Beiping East Road, dal nome di Pechino durante la dinastia dei Ming. “Lai Ching-te ha assicurato più volte che manterrà lo status quo”, dice Vincent Chao, a capo delle relazioni internazionali e della campagna elettorale del candidato presidente più odiato da Pechino. “Taiwan continuerà a mantenere lo status quo. Non provocheremo la Cina ma non faremo nemmeno passi indietro sui nostri principi come democrazia, libertà e rispetto dei diritti umani”.

L’approccio del DPP nei rapporti con Pechino ha quattro pilastri. Primo: rinsaldare la deterrenza attraverso il rafforzamento delle nostre difese. Secondo: aumentare la resilienza della nostra economia partecipando alle catene di approvvigionamento democratiche. Terzo: mantenere le nostre partnership internazionali. Quarto: garantire una linea stabile e pragmatica, aperta al dialogo.

(…)

“Per la pace e per la stabilità”. Recitano così i grandi manifesti appesi che adornano uno degli uffici del Kuomintang. Un po’ ovunque ecco le bandiere con cielo blu, sole bianco e terra rossa della Repubblica di Cina, fondata da Sun Yat-sen e “trasportata” da Chiang Kai-shek a Taiwan dopo la sconfitta nella guerra civile contro Mao Zedong. In vista delle elezioni di domani, il KMT sostiene che i taiwanesi si trovino di fronte a una scelta tra guerra e pace. “Ma è uno slogan elettorale più semplice da comunicare, io dico che la scelta è tra altri 4 anni di febbre alta e 4 anni di parziale guarigione”, dice Alexander Huang, capo delle relazioni internazionali del partito e suo rappresentante negli Stati Uniti.

Bisogna capire che noi non accettiamo l’agenda unilaterale di Xi. Rispettiamo il “consenso del 1992”, che afferma l’esistenza di una unica Cina ma con diverse interpretazioni. Il DPP fa credere che sia la stessa cosa di accettare “un Paese, due sistemi” di Hong Kong, ma non è così. Quest’ultimo è un modello unilaterale immaginato da Pechino per il post riunificazione. Il consenso del 1992 è invece una base da cui entrambe le parti possono partire per negoziati da condurre prima di eventuali accordi politici. Far credere che siano la stessa cosa rende più facile a Xi imporre la sua linea, anche retorica, su Taiwan.

Sempre alla vigilia del voto, ho scritto due longform, uno per raccontare tutti i temi del voto al di là dell’aspetto delle relazioni intrastretto, su Valigia Blu. L’altro invece, sulla questione identitaria, su ISPI.

Tra le tante interviste a voci taiwanesi realizzate prima del voto, segnalo oltre a quelle dei politici dei due partiti principali, anche quella a Frank Huang di Powerchip (uno dei grandi attori del settore dei semiconduttori) per RSI (audio dal minuto 25 circa). Poi  Yen Chen-shen della National Chengchi University di Taipei dal minuto 22 e  Kuo Yu-jen dell’Institute for National Policy Research di Taipei dal minuto 13.15.Infine Lin Ying-yu, esperto di difesa della Tamkang University di Nuova Taipei.

Il giorno del voto
“Se adesso ho paura di una guerra? No, se mai ci sarà una guerra ci sarà e basta. Non si farà per quello che è successo oggi”. Chi-hui scuote i capelli bianchi e infila la bandierina rosa nel cestino della bicicletta. Sullo sfondo si canta “Lai Ching-te dongsuan“, “eletto”. Lai è il nuovo presidente, proprio lui che la Cina ha definito a più riprese un “secessionista radicale”. Proprio lui che secondo il Kuomintang (KMT), l’opposizione dialogante con Pechino, rischia di portare Taiwan verso un conflitto.

Lai ribalta la questione, mandando un messaggio a Pechino. “Il primo significato della mia vittoria è che Taiwan dice al mondo che tra democrazia e autoritarismo, noi scegliamo di stare dalla parte della democrazia”, dice nelle sue primissime parole da presidente eletto. Tra la folla che lo ascolta dominano il verde e il rosa, ma anche l’arcobaleno che ricorda che Taiwan ha legalizzato per prima in Asia i matrimoni tra persone dello stesso sesso, nel 2019. Un ragazzo in canottiera gialla tiene invece nelle mani due bandiere, quelle di Ucraina e Israele. Un modo per mostrare alterità dalla Cina continentale anche sul posizionamento in merito alle crisi internazionali.

“Io comunque per il parlamento ho votato il Kuomintang per bilanciare la situazione”, dice ancora Chi-hui, mentre sta già iniziando a pedalare verso casa. Testimonianza del fatalismo, ma anche del pragmatismo, con cui i taiwanesi sono andati alle urne.

Prosegue sui quotidiani di domenica 14 gennaio. Racconti live nel giorno del voto anche qui (dal minuto 11.15qui (dal minuto 19).

Il bilancio del voto

La versione più semplice, e semplicistica, è che Taiwan ha detto un no definitivo alla Cina e rischia di avvicinarsi a un conflitto. La realtà è però che non sarà il risultato delle elezioni presidenziali e legislative di ieri a decidere se il futuro sarà di guerra o di pace, nonostante la retorica della campagna elettorale. O almeno, non soltanto.

L’esito emerso dalle urne, con la vittoria del tradizionalmente filo indipendentista Lai Ching-te del Partito progressista democratico (DPP), è frutto di una serie di fattori interni e contingenti che quantomeno nella mente dei taiwanesi poco avevano a che fare con la Cina continentale. Il primo elemento importante da tenere in mente è che Lai ha profondamente smussato le sue posizioni.

(…)

Porsi in perfetta linea con la posizione centrista della presidente uscente Tsai Ing-wen ha consentito a Lai di allontanare qualche timore tra l’elettorato taiwanese, nonostante il leader eletto continui a essere ritenuto più “imprevedibile”. Importante allora il ruolo giocato dalla futura vicepresidente, Hsiao Bi-khim. Si tratta dell’ex rappresentante di Taipei negli Stati Uniti ed è considerata la vera erede di Tsai. Non solo, anche Washington anela a un’autorità taiwanese stabile e soprattutto “prevedibile” (leggasi niente sorprese sull’indipendenza) e il fatto che Hsiao sia un volto ben conosciuto dall’amministrazione Biden viene considerata una garanzia.

L’altro elemento decisivo sulla vittoria di Lai è stata la frammentazione dell’opposizione. Tradizionalmente, alle presidenziali taiwanesi i contendenti sono due: il candidato del DPP e quello del Kuomintang (KMT, il più dialogante con Pechino). Dopo la vittoria schiacciante del KMT alle elezioni locali del novembre 2022, costruito su temi prettamente interni e locali, l’ennesima sfida a due avrebbe potuto favorire l’opposizione. Ma stavolta c’è stato un “terzo incomodo” molto serio, il Partito popolare di Taiwan (TPP) di Ko Wen-je. Ex chirurgo ed ex sindaco di Taipei, si è proposto come una “terza via pragmatica e anti ideologica”. Piuttosto che dei rapporti con la Cina continentale, su cui ha comunque rivendicato la necessità di riaprire il dialogo, durante la campagna ha parlato di temi molto concreti come il prezzo delle case, i salari minimi, l’occupazione e il dilemma energetico. Un approccio che ha convinto soprattutto i più giovani. Il suo 26% alle presidenziali è risultato decisivo per impedire all’ex poliziotto Hou Yu-ih, il candidato del KMT giunto secondo col 33%, di insidiare più da vicino Lai.

La possibile candidatura unitaria tra Hou e Ko, annunciata a novembre e poi naufragata a 24 ore dalla presentazione delle liste, sarebbe stata ampiamente favorita. Il DPP ha infatti perso il 17% delle preferenze rispetto alle presidenziali del 2020, vale a dire oltre due milioni e mezzo di voti in meno. Una tendenza ancora più netta alle legislative, dove per la prima volta dopo otto anni il partito perde la maggioranza. Nella legislatura che prende il via il 1° febbraio, sarà il KMT il primo partito con 52 seggi, comunque meno dei 57 necessari per avere la maggioranza assoluta. La presidenza di Lai sarà dunque azzoppata sin dall’inizio e il DPP dovrà trattare con Ko (vero ago della bilancia degli equilibri parlamentari) sulle riforme e sul budget di difesa.

La vittoria di Lai resta storica, visto che è la prima volta che un partito ottiene tre mandati consecutivi, ma esaminato più a fondo il voto dei taiwanesi appare pragmatico e non radicale. Una tendenza che pare aver recepito anche la Cina, che nella sua prima reazione al voto ha sì ribadito che la “riunificazione è inevitabile”, ma anche sottolineato che “stavolta il DPP non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola”. Una prospettiva che potrebbe portare Xi Jinping a pazientare ancora, sperando di fare leva sulle divisioni interne per avvicinare una “riunificazione pacifica” che, guardando l’orgoglio con cui i taiwanesi si recavano ieri ai seggi per votare il candidato preferito, resterà comunque difficile da ottenere.

Ne ho scritto qui.

Altri commenti sull’esito del voto qui, qui e qui.

La prospettiva cinese: intervista a Da Wei

“Ci sarà senz’altro un impatto sulla stabilità dei rapporti tra le due sponde dello Stretto. Questo non significa, però, che l’esito possa sicuramente significare guerra o pace. Il fatto che l’indipendenza di Taiwan significa guerra è una politica che la Cina porta avanti da tempo. Se il vincitore intraprenderà una linea politica che volge all’indipendenza di Taiwan, il rischio di un conflitto aumenta sensibilmente. Ma se nulla di ciò accade le probabilità di avere la pace sono più alte. Semplificando, credo che “pace e guerra” siano descrizioni di una prospettiva futura di medio-lungo termine e che non possano essere previsioni per il breve periodo”.

La riunificazione pacifica non sembra molto possibile nel breve periodo, ma da sempre è stata considerata un obiettivo di lungo termine, non un qualcosa da realizzare nella prossima manciata di anni. Nel giro di 30 anni si è passati da una maggioranza che sosteneva la riunificazione a una che sostiene il mantenimento dello status quo e non auspica la riunificazione. Chi può dire con certezza che tra altri 30 anni la volontà popolare non cambierà di nuovo? Se solo l’autorità dell’isola non intraprende politiche estremiste, la speranza di una riunificazione pacifica continua a esistere. Secondo la “legge anti-secessione” della Cina, “l’esaurimento totale delle condizioni per la riunificazione pacifica” è una delle tre fattispecie in cui Pechino può ricorrere all’uso della forza. Spero che Lai possa intraprendere politiche pragmatiche. Tra lui e Tsai Ing-wen esistono, probabilmente, delle differenze caratteriali che potrebbero portare a uno stile di governo differente e a una situazione pericolosa soprattutto nella seconda parte del suo mandato, in particolare nel periodo in cui sarebbe interessato a ottenere una rielezione”.

“Se l’autorità di Taiwan riconosce il consenso del 1992, fornisce una base per il dialogo per i contatti e gli scambi tra le due sponde e le relazioni possono andare verso una linea di distensione. Il principio “un Paese, due sistemi” è un punto fondamentale per realizzare la riunificazione, ovviamente auspichiamo che le autorità di Taiwan possano accettarlo, ma non è assolutamente la premessa per i contatti e i rapporti tra le due sponde”.

Continua qui.

Addio a Shih Ming-teh

Lunedì 15 gennaio è morto un grande personaggio della recente storia taiwanese. Si tratta di Shih Ming-teh. Nel bel ritratto che fa di lui Cna, si legge: “Conosciuto come il Nelson Mandela di Taiwan, l’attivista politico ha trascorso la prima metà della sua vita a spingere per porre fine al governo autoritario dell’allora Kuomintang (KMT), che gli ha fatto trascorrere più di un quarto di secolo in prigione”.

(…).

“Tuttavia, dopo l’ascesa al potere del DPP per la prima volta nel 2000, Shih ha iniziato ad allontanarsi dal partito fino a quando, nel 2006, ha guidato una campagna di protesta su larga scala contro l’allora presidente Chen Shui-bian, coinvolto in accuse di corruzione. La campagna, durata mesi, ha reso Shih ufficialmente un nemico di Chen e di quasi tutti i membri del DPP, facendolo ritrovare ancora una volta ad opporsi a chi è al potere”.

Di Lorenzo Lamperti

Taiwan Files –La puntata precedente

Intervista a Ma Ying-jeou

Intervista ad Audrey Tang

Reportage da Kinmen

Reportage dalle isole Matsu