Taiwan Files – Il primo Double Ten di Lai e “Spada Congiunta 2024 B”

In Relazioni Internazionali, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Il primo discorso di Lai per la festa della Repubblica di Cina, il nuovo round di esercitazioni militari di Pechino, aiuti dagli Usa e armi “inutilizzabili”, le serie tv rompono il tabù militare, reportage sulla pena di morte a Taiwan e tante altre notizie. La rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)

Il Double Ten e il discorso di Lai

Il 10 ottobre si festeggia la festa della Repubblica di Cina, il cosiddetto Double Ten di Taiwan. Perché si festeggia il 10/10? Per quello che è successo il 10 ottobre 1911. La rivolta di Wuchang dà il via alla rivoluzione Xinhai. Si tratta dell’inizio della fine per la dinastia imperiale Qing. Un anno più tardi nasce la Repubblica di Cina con la nomina di Sun Yat-sen a presidente del Consiglio delle province. 113 anni dopo la ricorrenza viene ancora celebrata a Taiwan, il cui nome ufficiale resta appunto Repubblica di Cina.

Giovedì scorso era dunque il primo Double Ten di Lai Ching-te in veste di presidente. Anche per questo il suo discorso era molto atteso, ricordando peraltro quanto accaduto dopo il suo discorso di insediamento del 20 maggio scorso (qui l’analisi di quel discorso), quando Pechino aveva risposto con due giorni di esercitazioni militari.

I toni del suo discorso sono stati più moderati rispetto a maggio, pur mantenendo (come prevedibile) tutti gli ingredienti che non piacciono a Pechino sullo status di Taipei. Tra i passaggi più significativi: rifiuto dei “tentativi di annessione“, “la Repubblica Popolare Cinese non ha diritto di rappresentarci nel mondo”. Allo stesso tempo, le scelte contenutistiche sono state meno radicali rispetto al discorso di insediamento di maggio (mancano per esempio riferimenti espliciti alle intimidazioni militari e all’area grigia, mentre si auspica azione positiva della Cina sulla guerra in Ucraina), probabilmente effetto delle tante polemiche di chi aveva criticato Lai per essersi discostato dall’ambiguità strategica dell’ex presidente Tsai Ing-wen.

Gli elementi più critici per Pechino: reiterazione dell’esistenza di due entità non subordinate, menzione di “annessione” invece di “unificazione”, messa sullo stesso piano di “Repubblica di Cina” e “Taiwan” (passaggio più problematico perché secondo Xi Jinping mostra l’evidenza della posizione “indipendentista” di Lai), mancata citazione della Costituzione come guida dei rapporti intrastretto.

Il discorso è stato criticato in parte dal Guomindang, ma molto più decisamente dall’ex presidente Ma Ying-jeou (la cui foto dello storico incontro con Xi Jinping a Singapore del 2015 campeggia in una sala del museo del Partito comunista a Pechino), che ha scelto di non presenziare alla cerimonia del 10 ottobre proprio per quelle che definisce “provocazioni” di Lai e il suo allontanamento dalla costituzione della Repubblica di Cina. Il direttore della sua fondazione, Hsiao Hsu-tsen, ha anche rimbrottato il Guomindang per essere stato troppo morbido, sottolineando come la Repubblica di Cina di cui parla Lai non è la stessa della costituzione e difesa dal partito d’opposizione, che include anche la Cina continentale. La sensazione è che nel Guomindang si sia in una fase di riorganizzazione, con l’influenza di Ma che potrebbe indebolirsi e altri centri nevralgici che provano a dare una nuova linea al partito.

L’amministrazione Lai ha definito il discorso moderato, sottolineando un cambio di tono rispetto a maggio. Pechino non ha colto: troppa la sfiducia (ricambiata) nei confronti di quello che considera un “secessionista radicale”. Sotto accusa la cosiddetta “taiwanizzazione” dello status quo. Dalla Cina si sono alzate varie voci di critica e condanna. Yang Jinghua, ricercatore associato dell’Istituto di studi su Taiwan dell’Accademia cinese delle scienze sociali, ha detto alla CCTV: “A giudicare dal suo discorso di questa volta, ha apportato alcuni aggiustamenti alla sua retorica e alle sue capacità oratorie, e il suo uso del linguaggio può sembrare più gentile. Ma in sostanza, la sua posizione di separatista alla ricerca dell’indipendenza di Taiwan non è cambiata”.  Sui media statali, il discorso di Lai è stato definito “pillola di veleno avvolta nel cellophane”.

A infastidire Xi Jinping anche il viaggio in Europa di Tsai, che lunedì ha parlato a un forum in Repubblica ceca, accolta dal presidente Petr Pavel. Nei prossimi giorni sarà a Bruxelles e in Francia. Non in Regno Unito, che ha chiesto di rinviare la visita per non creare problemi al viaggio in Cina del segretario degli Esteri David Lammy.

Già nei giorni precedenti al Double Ten, un discorso di Lai al Taipei Dome aveva generato discussioni interne e critiche da Pechino. In quel caso, aveva dichiarato con una formulazione inedita: “In termini di età, è assolutamente impossibile che la Repubblica Popolare Cinese diventi la madrepatria del popolo della Repubblica di Cina. Al contrario, la Repubblica di Cina può essere la madrepatria della parte di popolo della Repubblica Popolare Cinese che ha più di 75 anni”. Una risposta anche ad alcuni deputati del Guomindang, che dicono di sentirsi ancora a tutti gli effetti cinesi.

Le esercitazioni Spada Congiunta 2024 B

esercitazioni taiwan

Dopo le prime reazioni retoriche, domenica 13 ottobre si era capito che si stava avvicinando un nuovo round di manovre militari, come scrivevo qui. Per due motivi. Primo: il video di propaganda pubblicato dal Comando del Teatro Orientale dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, con filmati di addestramenti militari aerei, terrestri e marittimi con jet, navi e lanciamissili mobili operare in modalità congiunta. Appare anche una piccola mappa di Taiwan, all’interno di uno dei caratteri cinesi che compongono il titolo del video, “Pienamente preparati e in attesa della battaglia”. Secondo: il ministero della Difesa di Taipei ha reso noto di aver osservato la portaerei cinese Liaoning attraversare il delicato stretto di Bashi, che separa la punta sud dell’isola di Taiwan alle coste più settentrionali delle Filippine.

È l’alba di lunedì 14, quando la Cina annuncia ancora una volta di aver brandito contro Taiwan la “spada congiunta”. È questo il nome delle esercitazioni militari svolte ieri intorno all’isola, con l’aggiunta di un “2024 B” che ricorda come si tratti del secondo capitolo delle manovre dello scorso maggio. Nel menù pattugliamenti congiunti, controllo di porti e aree chiave, test di attacchi a obiettivi marittimi e terrestri. Obiettivo: simulare un blocco navale. Per riuscirci, la portaerei Liaoning (acquistata a suo tempo dall’Ucraina) è stata impiegata al largo della costa orientale, l’unica da cui potrebbero arrivare aiuti dall’esterno in caso di conflitto. In tal modo, lo Stretto di Taiwan, che si affaccia sulla costa nord occidentale dell’isola, è stato trasformato in una sorta di “mare interno” cinese. A rafforzare il simbolismo, l’impiego di vasto numero di squadre di navi della guardia costiera, che hanno circumnavigato Taiwan in un ampio cordone. Una forte rivendicazione di sovranità.

Il blocco navale è uno degli scenari considerati più plausibili in caso si opti per un’azione militare. Tra gli analisti militari cinesi, il riferimento sarebbe il cosiddetto “modello Pechino”, applicato tra novembre 1948 e gennaio 1949 per tagliare i rifornimenti e costringere alla resa i nazionalisti di Chiang Kai-shek, assediati all’interno della città. Uno schema che si immagina di poter ripetere, sfruttando i punti deboli di Taipei, a partire dalla quasi totale dipendenza dalle importazioni per le riserve energetiche.

L’esercito cinese ha definito le manovre “un potente deterrente per le attività separatiste degli elementi indipendentisti di Taiwan e sono azioni legittime e necessarie per salvaguardare la sovranità nazionale”, mentre Taipei denuncia “provocazioni irrazionali” e chiede a Pechino di “rispettare le scelte del popolo di Taiwan”.

Le nuove manovre sono state meno lunghe e attese, ma anche più vicine. Sono durate “solo” 12 ore, ma Pechino sostiene che i numerosi mezzi dispiegati hanno tolto ulteriore spazio di manovre alle difese dell’isola. A differenza di agosto 2022, quando le esercitazioni durarono dieci giorni, nessun lancio di missili e dunque nessun impatto su voli o funzionalità dei porti. Eppure, la portata delle manovre non va sottovalutata. Nel giro di poco più di mezza giornata, sono stati rilevati 156 velivoli nella regione intorno a Taiwan, 111 dei quali all’interno dello spazio di identificazione di difesa aerea: un record. Nei pressi dell’arcipelago delle Matsu, una manciata di chilometri dal Fujian cinese, la guardia costiera taiwanese ha allontanato quattro navi di Pechino. A Kinmen, altro mini arcipelago amministrato da Taipei ma nei pressi delle coste della Repubblica popolare, è stato arrestato un cinese per un “tentativo di intrusione”.

Sul fronte politico taiwanese, il nuovo scossone può rafforzare Lai. Spesso criticato dall’opposizione interna e da alcuni analisti per togliere la cruciale ambiguità allo status quo, può sostenere che mostrare moderazione non porta a una reazione più morbida di Pechino. Anche perché c’è la prospettiva di nuovi round di esercitazioni a ogni occasione utile, compresi i vari discorsi annuali, il che fissa una barra di “tolleranza” davvero bassa, a causa della sfiducia (ricambiata) che Pechino nutre per Lai.

Gli Stati Uniti si sono detti “preoccupati” per la pressione militare in risposta a un “discorso di routine”. Meno preoccupati i mercati, con la borsa di Taipei che ha chiuso in crescita dello 0,32%. Non c’è la sensazione che ci sia una volontà di confronto imminente, ma è chiaro che un maggiore dispiego militare porta con sé anche maggiori rischi di incidenti non calcolati, passibili di essere utilizzati come casus belli. La storia, ovviamente, non finisce qui.  Nel prossimo futuro ci saranno altri scossoni, soprattutto se come gira voce da tempo Lai dovesse effettuare un transito negli Usa entro fine anno, in un periodo particolarmente insidioso perché di transizione tra il voto e l’insediamento del nuovo presidente. Nel 2016, in questa fase Trump accettò la telefonata di Tsai, avviando alcune delle dinamiche a cui si assiste ancora oggi.

Anche l’Economist parla ora di “strategia dell’anaconda“, termine che ho utilizzato ad aprile 2023 qui, dopo una conversazione con l’ex ammiraglio della marina militare di Taipei Chen Yeong-kang.

Previste anche misure economiche, dopo la recente rimozione di agevolazioni tariffarie per l’importazione di 34 prodotti taiwanesi in Cina continentale.

Attenzione anche all’arsenale normativo. Il Partito comunista ha invece sanzionato due nuovi “secessionisti”: il deputato Puma Shen, fondatore del movimento di difesa civile Kuma Academy, e l’ex magnate dei chip Robert Tsao, che dopo aver portato i semiconduttori in Cina continentale si è di recente scoperto anti Pechino.

Qualche settimana fa, c’era stata la prima condanna di un cittadino taiwanese in Cina continentale con l’accusa di separatismo. Si tratta di Yang Chih-yuan, 34 anni, arrestato dopo la visita di Pelosi a Taipei nell’agosto 2022. Un alto dirigente di uno dei maggiori conglomerati industriali di Taiwan, la Formosa Plastics Group, è stato invece trattenuto in Cina continentale dopo essere atterrato all’aeroporto internazionale di Shanghai Hongqiao con un volo proveniente da Taipei.

A Taiwan, i sondaggi su aziende e cittadini continuano a segnalare che la preoccupazione di un conflitto è ancora relativamente bassa.

Ne ho scritto qui e qui, ne ho parlato qui (dal minuto 19.20).

L’intervista ad Amanda Hsiao

Qui sotto alcuni stralci dell’intervista che ho realizzato ad Amanda Hsiao, senior analyst di Crisis Group e tra le massime esperte di relazioni tra Pechino e Taipei, in un contesto in cui anche Taiwan e gli Stati Uniti “stanno cercando di capire cosa possono fare per rientrare in confini che non erano mai stati tracciati chiaramente”. E tutti e tre i protagonisti di questo triangolo, che pare sempre più pericoloso, “testano le rispettive linee rosse”.

Lo status quo è sempre stato un po’ ambiguo, e proprio questa è l’essenza della ragione per cui ha funzionato come meccanismo di prevenzione. Il problema è che man mano che la situazione diventa più conflittuale e più strategicamente carica, il mantenimento della tolleranza per l’ambiguità diminuisce da tutte e tre le parti. Le differenze ci sono sempre state, ma ora sono diventate più difficili da sostenere, per tre motivi. Primo: la Cina è più forte militarmente e politicamente. Ed è diventata più assertiva sulle sue rivendicazioni, non solo su Taiwan ma anche altrove. Questo, porta a chiedersi fino a che punto la Cina sia davvero disposta a continuare a perseguire la riunificazione pacifica. Secondo: Taiwan è diventata un teatro chiave della competizione strategica con gli Usa. Per Washington, l’isola è cruciale per difendere la sua posizione in Asia-Pacifico e mostrarsi credibile agli alleati. Terzo: rispetto ai predecessori, Lai è più chiaro sullo status di Taiwan e la sua sovranità.

(…)

Dalla Cina stanno arrivando molti segnali, spesso rivolti all’opinione pubblica interna e agli ultranazionalisti, a cui viene detto: “Abbiamo tutto sotto controllo. Non ci serve una guerra in questo momento”. Ma in molti a Taipei non credono più che la moderazione porti un comportamento meno aggressivo da parte di Pechino. Quindi, ci si chiede: perché essere moderati?

In questo momento Pechino è in una fase di attesa, ma c’è un’enorme imprevedibilità una volta che a Washington entrerà in carica una nuova amministrazione. Con Kamala Harris ci si può aspettare una relativa continuità, ma ci sono alcuni scenari in cui la combinazione di un’amministrazione Trump e le opinioni cinesi sull’attuale amministrazione di Taipei potrebbero creare molte più tensioni.

Per approfondire, Crisis Group ha recentemente pubblicato un nuovo report sulle tensioni intrastretto, introdotto così: “Il nuovo presidente di Taiwan ha adottato una posizione più dura sull’autonomia de facto dell’isola dalla Cina. Pechino, a sua volta, ha aumentato la pressione. Per evitare un’escalation crescente, Taipei dovrebbe attenuare la sua retorica e Pechino dovrebbe limitare le sue intimidazioni militari”. Si legge qui.

Biden approva nuove armi, ma a Taipei ci si lamenta per le condizioni degli aiuti

Più di mezzo miliardo di dollari. Il valore del nuovo pacchetto di aiuti militari per Taiwan, in fase di approvazione da parte degli Stati Uniti, è il più ampio di sempre. Un segnale chiaro dell’impegno di Washington su quella che viene ritenuta una sua priorità strategica. Anche e soprattutto un messaggio alla Cina, che continua a sanzionare le imprese americane impegnate nella vendita di armi all’isola che rivendica come parte del suo territorio. Come accaduto per la prima volta lo scorso anno, gli Usa usano la via più rapida per la consegna di armi, vale a dire utilizzando il potere del presidente di attingere direttamente dalle scorte militari di Washington. Gli Stati Uniti hanno fatto molto affidamento su questo metodo per sostenere l’Ucraina durante l’invasione della Russia e il fatto che vi si ricorra anche su Taiwan (seppure con cifre fin qui infinitamente inferiori) dimostra un cambio di marcia.

Il valore degli aiuti è quasi doppio rispetto a quello del 2023, quando ammontava a 345 milioni di dollari, ed è probabile che l’amministrazione Biden lo approvi prima che l’anno fiscale finisca il 30 settembre. Secondo il sito specializzato Defense News, inizialmente il Pentagono aveva previsto un pacchetto più ridotto, ma in seguito alle pressioni di altri dipartimenti ha aumentato l’importo. Il nuovo pacchetto finanzierà l’addestramento, le scorte, le armi anti-armatura e la consapevolezza multidominio. All’interno dovrebbero esserci anche dei droni, una componente che si ritiene fondamentale nella strategia di deterrenza asimmetrica di cui Taipei ha bisogno. Sull’isola sono peraltro stati in visita proprio in questi giorni 20 manager di produttori statunitensi di sistemi anti drone, con l’ipotesi non più così remota di una produzione congiunta o comunque di un dispiegamento considerevole sul territorio della Repubblica di Cina (il nome ufficiale di Taiwan).

Eppure, al di là degli annunci, sul “campo” la realtà è meno idilliaca sui rapporti di difesa tra Usa e Taiwan. Sebbene il Congresso degli Stati Uniti abbia dato all’amministrazione Biden l’autorità di inviare a Taiwan fino a 1 miliardo di dollari di equipaggiamenti provenienti dalle proprie scorte, i deputati statunitensi non hanno dato al Pentagono un budget per compiere quanto precedentemente annunciato su carta. Lo stesso esercito americano è stato riluttante a consegnare a Taipei armi che non può facilmente sostituire. L’anno scorso, il Segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha interrotto gli aiuti militari a Taiwan dopo aver discusso la possibilità di un pacchetto aggiuntivo, citando la mancanza di fondi. Ora il problema potrebbe essere superato, visto che secondo Defense News il Pentagono starebbe lavorando a un pacchetto di armi separato, che dovrebbe essere completato prima che Biden lasci posto a Donald Trump o Kamala Harris il prossimo gennaio.

Certo, a Taiwan chiedono un cambio di passo. Da tempo, i funzionari della difesa lamentano ritardi nell’arrivo delle spedizioni. Alcuni pacchetti di armi approvati nel 2020 non arriveranno prima del 2025. La guerra in Ucraina ha provocato ulteriori rinvii, a causa della necessità di assistenza a Kiev. A microfoni spenti, si critica poi l’assenza quasi totale di trasferimento tecnologico: i mezzi dell’esercito taiwanese, spesso antiquati, devono essere spediti negli Stati Uniti per essere riparati o aggiornati. E viene sottolineata anche la quasi inesistente interoperabilità tra le forze armate. Solo di recente sarebbe iniziata sottotraccia una pratica di invio di truppe taiwanesi negli Usa per addestramento.

Ma nelle ultime settimane, oltre ai numerosi ritardi nelle consegne, è emerso un problema solitamente tenuto riservato: la scarsa qualità dei dispositivi giunti a Taiwan. Il ministero della Difesa di Taipei ha segnalato una serie di problemi sugli articoli consegnati tra novembre e marzo, proprio nell’ambito del precedente pacchetto di aiuti nell’ambito del prelievo presidenziale dalle scorte del Pentagono. Le spedizioni includono 120 pallet danneggiati dall’acqua contenenti più di tremila piastre di armatura e 500 giubbotti tattici che erano “zuppi fradici e ricoperti di muffa”. Diverse munizioni sono arrivate male imballate. Alcune sono state prodotte nel 1983 e sono scadute. Inoltre, sono state rinvenute sei mitragliatrici M240B gettate a casaccio in una grande scatola di cartone “senza alcun involucro o imbottitura”. Un quadro non proprio esaltante, peraltro peggiorato da un ulteriore report, stavolta dell’US-Taiwan Business Council, che ha criticato i numeri del sostegno americano a Taipei. “Il sostegno degli Stati Uniti alla modernizzazione delle forze materiali di Taiwan è in calo dal 2021. Attualmente è al livello più basso dal 2001, escludendo il blocco delle vendite di armi imposto dall’amministrazione Obama per oltre quattro anni, dal 2011 al 2015, e continua a diminuire”, si legge. “La Presidential Drawdown Authority (PDA) e il Foreign Military Financing (FMF) sono nuovi importanti fattori di sostegno materiale, ma dovrebbero aggiungersi al flusso e non sostituirlo”, sostiene l’US-Taiwan Business Council.

Ne ho scritto qui.

Tra Taipei e Pechino le tensioni corrono sul piccolo schermo

Un soldato in divisa esprime rammarico per l’attuale separazione e auspica la “riunificazione nazionale”. Poi appaiono droni ed elicotteri, che si fanno strada tra la resistenza rivale, portata avanti da missili anti aerei simili a quelli prodotti dagli Stati Uniti. Inizia così il sesto episodio di Quenching, una serie prodotta dalla China Central Television, il broadcaster di Stato in Cina. In 20 minuti viene messa in scena un’ipotetica azione militare per “salvaguardare la sicurezza nazionale” e “salvare Taiwan dalle minacce di secessione e interferenze esterne”. Si tratta di un salto di qualità comunicativo da parte di Pechino, che arriva non a caso a distanza di un paio di mesi dalla pubblicazione dei 17 minuti del teaser di Zero Day, la prima serie televisiva prodotta da Taiwan che racconta in modo realistico una possibile “invasione” dell’Esercito Popolare di Liberazione di cui avevo scritto qui.

Le due sponde dello Stretto oltrepassano dunque nello stesso momento uno dei loro tabù, quello di far vedere come potrebbe essere un conflitto militare, rendendolo allo stesso tempo meno lontano da concepire per le rispettive opinioni pubbliche. La serie taiwanese, la cui uscita è prevista nella primavera del 2025, è anch’essa del tutto continua alle esigenze retoriche del governo di Taipei. Tra i suoi finanziatori appare Robert Tsao, ex magnate dei microchip con una storia a dir poco avventurosa, che ho raccontato qui.

Per Taipei è un tema molto sensibile. Per decenni, l’indicazione del governo taiwanese ai media era sempre stata quella di non amplificare i rischi. Questo per tre ragioni: non creare il panico tra i cittadini, non dare l’impressione che l’esecutivo non fosse in grado di difendere Taiwan, non favorire dubbi per le aziende internazionali sull’opportunità di investire sull’isola. Il lancio di questa serie segna un cambiamento nel metodo di comunicazione, resosi necessario non solo dalla preoccupazione di una sottovalutazione eccessiva dei rischi da parte della popolazione, ma anche dalle pressanti richieste degli Stati Uniti di aumentare la prontezza a difendersi.

La serie è peraltro diventata rapidamente un caso. Secondo alcune voci, alcuni attori e attrici avrebbero rifiutato l’offerta di partecipare al progetto, con il timore di perdere la possibilità di lavorare nel mercato cinematografico della Repubblica Popolare. Anche alcuni luoghi dove si sarebbero dovute girare alcune scene avrebbero preferito evitare di apparire. Non sorprende, visto che la pressione di Pechino sui taiwanesi per prendere posizione politica si è fatta più forte che in passato. Sia sui protagonisti del mondo dell’intrattenimento, sia sui grandi imprenditori con interesse al di qua dello Stretto, come avevo raccontato qui.

I realizzatori di Zero Day hanno parzialmente smussato l’approccio “documentarista” della serie. “Abbiamo parlato con la marina militare sulla nostra sceneggiatura, ma nello scrivere siamo stati indipendenti”, ha dichiarato in un incontro pubblico Lo Gong-zim, uno dei registi della serie, negando più volte che si tratti di un “lavoro di propaganda”. I produttori hanno citato la necessità di colmare un vuoto su un tema così rilevante, ma sottolineando che la stessa cosa accade da diversi anni in Corea del Sud dove sono stati girati molteplici film e serie su un’ipotetica guerra con la Corea del Nord. Insomma, per ora è finzione. Ma le rispettive serie mostrano che a Pechino e Taipei immaginare un ipotetico scontro non è più tabù. Ne ho scritto qui.

Sullo stesso tema, il Wall Street Journal scrive sui giochi di intrattenimento ispirati dal rischio di conflitto.

Pena di morte a Taiwan: la sentenza della Corte costituzionale

La Corte costituzionale di Taiwan ha stabilito che la pena di morte è costituzionale, ma solo per i reati più gravi e con il più rigoroso controllo legale, dopo aver esaminato una petizione presentata da 37 persone che si trovano nel braccio della morte. Nonostante la reputazione di Taiwan come democrazia liberale, la pena di morte rimane ampiamente popolare secondo i sondaggi di opinione, anche se negli ultimi anni è stata eseguita solo raramente e i crimini violenti sono relativamente bassi.

Sul tema ho scritto un lungo reportage su Specchio de La Stampa. Qui sotto l’incipit.

Wang Xin-fu ha 69 anni. Ne ha trascorsi 34 in cella, dove aspetta di essere giustiziato. Quando fu arrestato, nel 1990, in alcuni territori amministrati da Taipei era ancora in vigore la legge marziale di Chiang Kai-shek e il Kuomintang era il partito unico. Wang è stato condannato a morte per aver fornito una pistola a un uomo che uccise un poliziotto. Da decenni, Wang proclama la sua innocenza ma a oggi resta uno dei 38 prigionieri (tra cui una donna) in attesa di esecuzione a Taiwan. Già. Sull’isola spesso ritenuta un faro di democrazia in Asia orientale, anche in contrapposizione alla Cina continentale, è ancora in vigore la pena di morte.

“Gli stranieri sono molto sorpresi lo scoprono, eppure la politica non ha mai fatto passi concreti per abolirla”, dice Lin Hsin-yi, direttrice della Taiwan Alliance to End the Death Penalty, associazione che si batte da decenni per la revoca. I metodi sono peraltro brutali. “Le esecuzioni avvengono tramite un colpo di pistola al cuore”, spiega Lin. “I condannati non ricevono alcuna informazione sulla data dell’esecuzione. Ogni notte potrebbe essere l’ultima, ogni giorno potrebbe essere quello in cui bussano alla porta per giustiziarti. Non vengono informati nemmeno i familiari, che solitamente apprendono della morte dalla televisione o dai media”. Una situazione che ha un profondo impatto psicologico. “In passato ci sono stati dei suicidi. C’è chi si batte per provare a ottenere una revisione, ma anche chi scrive al ministero della Giustizia chiedendo di porre fine alle sue sofferenze”, racconta Lin. A sparare è un singolo agente della polizia penitenziaria, che dunque sa di essere il boia, a differenza di quanto accade(va) nei plotoni di esecuzione. Per gli agenti nessun supporto psicologico, ma un semplice hongbao, la tradizionale busta rossa con un po’ di banconote che si riceve in regalo dai parenti per il capodanno lunare.

Le condizioni nelle carceri sono spesso pessime. Celle molto piccole con due prigionieri, un solo bagno senza porta né privacy, una piccola finestra e niente aria condizionata. Solo 30 minuti d’aria al giorno dal lunedì al venerdì, nessuna possibilità di svolgere attività all’esterno.

I cercapersone killer in Libano e la Gold Apollo di Taiwan

Un foglio di carta A4 appeso a una porta di vetro. Sopra la scritta: Bac Consulting, il nome dell’azienda registrata in Ungheria e indicata come la produttrice dei cercapersone esplosi tra Libano e Siria. È quella la sede legale della società ma dietro la porta di vetro, in un sobborgo residenziale di Budapest, Reuters non ha però trovato nessuno. L’amministratrice delegata, Cristiana Barsony-Arcidiacono, segnala sul suo profilo LinkedIn di aver lavorato anche per Unesco. Per ora, non si sa di più, in questo esplosivo gioco di scatole cinesi. O per l’esattezza taiwanesi. Subito dopo la raffica di esplosioni, gli esperti internazionali hanno indicato in modo pressoché unanime un’azienda dell’isola come il probabile produttore dei cercapersone: Gold Apollo. Fondata nel 1995, quando si era nel pieno del boom tecnologico dell’isola. In una mattina di metà settembre, i giornalisti locali sono piombati al suo quartier generale, nel parco commerciale di Nuova Taipei. Insieme a loro, sono arrivati anche degli agenti di polizia.

A entrambi, il fondatore e presidente Hsu Ching-kuang, ha dato la stessa versione: “Quei cercapersone non sono nostri. Hanno solo appiccicato il marchio della nostra azienda”. È stato proprio Hsu a fare il nome della Bac. Secondo la sua versione, Gold Apollo avrebbe accettato circa tre anni fa di lasciare che l’azienda registrata in Ungheria vendesse i propri prodotti utilizzando il suo marchio. Un affare win-win. Per la Bac, significava sfruttare la reputazione di una realtà molto conosciuta sul mercato dei cercapersone. Gold Apollo riceveva invece una parte dei profitti, in un settore rimasto ormai una piccola nicchia dopo la rivoluzione digitale del nuovo millennio. Non si tratta di una pratica inusuale, nel multiforme settore tecnologico taiwanese, dove spesso i complicati giri di licenze e appalti rendono difficile risalire al produttore materiale.

Ne ho scritto qui. Nel frattempo a Taipei continuano le indagini.

Altre notizie

Lai ha presieduto la prima riunione del Comitato per la resilienza della difesa nazionale, che mira a “costruire una piattaforma di comunicazione strategica e coordinamento sulla resilienza di Taiwan”.

Politica interna: Ko Wen-je, leader del Taiwan People’s Party, è stato arrestato per una seconda volta a inizio a settembre. L’opposizione grida alla caccia alle streghe e anche Pechino critica Lai per volersi “sbarazzare” degli avversari politici tramite inchieste giudiziarie.

La parlamentare del Partito Democratico Progressista (DPP) Huang Jie è stata inserita nella lista annuale “100 Next” della rivista Time. Qui l’intervista che le ho fatto lo scorso febbraio, subito dopo essere stata eletta.

Un membro dell’Aeronautica Militare di Taipei è morto dopo essere stato colpito da un proiettile vivo durante una sessione di addestramento con armi leggere in un poligono di tiro in una base militare a Taichung.

Matrimoni intrastretto. Le coppie omosessuali Taiwan-Cina continentale sposate in un Paese terzo possono ora registrare il loro matrimonio a Taiwan, seguendo le stesse norme applicate alle coppie eterosessuali dello Stretto sposate in un Paese terzo quando registrano il loro matrimonio a Taiwan. C’è già stato il primo caso, a Kaohsiung.

Oltre 1.000 pellegrini taiwanesi si sono recati nella provincia sudorientale cinese del Fujian per un festival religioso, un raro caso di scambio culturale tra le due sponde dello Stretto.

Il governo di Taiwan ha dichiarato che due cittadini cinesi sono stati espulsi dopo che avevano disturbato una protesta degli esuli di Hong Kong a Taipei in occasione della festa nazionale cinese.

Quattro dipendenti taiwanesi di stabilimenti cinesi del colosso Foxconn, primo fornitore di iPhone per Apple, sono stati arrestati dalle autorità locali, che hanno poi fornito delle spiegazioni a riguardo.

Risoluzione 2758: continua la battaglia diplomatico-interpretativa internazionale tra Pechino e Taipei sul significato della risoluzione e del documento che portò all’ingresso della Repubblica Popolare Cinese alle Nazioni Unite a discapito della Repubblica di Cina di Chiang Kai-shek.

Sullo Stretto di Taiwan è transitata una nave della Germania, con critiche annesse di Pechino, e per la prima volta una nave militare del Giappone, proprio alla vigilia della nomina di Shigeru Ishiba (di recente peraltro protagonista di un viaggio a Taipei) a nuovo premier.

Di Lorenzo Lamperti

La puntata precedente

Il bilancio dell’era Tsai, gli scenari dell’era Lai

L’analisi dell’incontro Xi-Ma

Lo speciale sulle elezioni 2024

Intervista a Ma Ying-jeou

Intervista ad Audrey Tang

Reportage da Kinmen

Reportage dalle isole Matsu