Il discorso di fine anno di Xi Jinping e la riposta di Tsai Ing-wen, i temi della campagna elettorale a Taiwan, gli ultimi sondaggi e il dibattito televisivo. Le manovre di Pechino e Washington in vista delle urne. La rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
Il 2024 è iniziato, mancano 11 giorni alle elezioni presidenziali e legislative di Taiwan. Qui la guida su candidati e scenari pubblicata all’inizio della campagna elettorale. Visto che se n’è parlato tanto, togliamoci subito il pensiero di parlare del discorso di fine anno di Xi Jinping per poi passare ad altri aspetti in vista del voto.
Intanto partiamo dalle parole esatte pronunciate da Xi: “La riunificazione della madrepatria è una necessità storica: i compatrioti su entrambi i lati dello Stretto devono unirsi e condividere la grande gloria del rinnovamento nazionale”. Nota a margine: il discorso di Xi è su tante altre cose, alcune anche molto interessanti, il passaggio su Taiwan è solo questo. Comunque. La parola “inevitabile” che appare nelle traduzioni in inglese e italiano non c’è, anche se il senso rimane. Si tratta di una novità? No, Xi lo ha detto e ripetuto decine di volte anche in queste occasioni e anche in modo più elaborato e aggressivo di questo.
Lo aveva detto non più tardi del 26 dicembre al simposio per il 130° anniversario della nascita di Mao Zedong. Insomma, si tratta di un “avvertimento” che è il minimo comune denominatore della tradizionale posizione di Pechino sulla questione di Taiwan. Definendo l’obiettivo della riunificazione qualcosa di storico Xi ribadisce sia al pubblico interno che a quello esterno, Usa in primis, che su Taiwan non potrà mai negoziare. Anche qui non una novità vista la discussione tra Xi e Biden sul tema a San Francisco, quando il leader cinese aveva dato garanzie sulla non volontà di operare azioni militari nel prossimo futuro, chiedendo però supporto all’ipotesi della “riunificazione pacifica”.
Certo, il tempismo è importante visto che tra 13 giorni ci sono le elezioni a Taiwan. Ma il discorso di Xi non cambierà i calcoli dei taiwanesi in vista del voto, anche perché il discorso è stato più stringato e (come detto) meno aggressivo di altri. Tradizionalmente, più Pechino mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Prova chiara col discorso del 2 gennaio 2019, forse il più duro di Xi, che unito alla riduzione dell’autonomia di Hong Kong (non a caso citata da Tsai Ing-wen in vista delle elezioni) favorì decisamente il Dpp (inviso a Pechino) alle elezioni 2020. Quel discorso fu lungo ed elaborato, oltre che duro, perché pronunciato in occasione del 40° anniversario della prima lettera (prima “offerta”, diciamo così) di Pechino a Taipei del 1979. Martedì 2 gennaio ricorre il 45° anniversario, vedremo se arriveranno altri discorsi sul tema.
In quel caso, i riflessi sul voto taiwanese potrebbero essere più significativi, o quantomeno esistere, rispetto al discorso standard odierno. A Taipei, torto o ragione, sono più preoccupati per altre manovre di Pechino, per esempio sul commercio. Non a caso nei giorni scorsi Pechino ha cancellato una serie di agevolazioni fiscali per alcuni prodotti importati da Taiwan.
La posizioni sui rapporti intrastretto
Preambolo: ribadiamo nuovamente che il voto è stato presentato come una scelta tra “guerra e pace” dal principale partito d’opposizione, il Guomindang (GMD). Una posizione in qualche modo confermata dalle autorità di Pechino. Secondo il Partito nazionalista cinese che fu di Chiang Kai-shek, una vittoria dell’attuale maggioranza del Partito progressista democratico (DPP) rischierebbe di provocare uno scontro militare con Pechino. Il DPP presenta invece il voto come una scelta tra “democrazia e autoritarismo”, alludendo al fatto che un ritorno al potere del GMD possa portare ad accordi politici con il Partito comunista cinese (PCC) e potenzialmente a un’unificazione con la Repubblica Popolare.
Si tratta di due esagerazioni all’interno di cornici retoriche opposte. I due partiti hanno posizioni diverse sui rapporti intrastretto, anche se entrambi hanno come stella polare il mantenimento dello status quo (che la stragrande maggioranza dei taiwanesi vuole mantenere), quantomeno per come viene interpretato a Taiwan, cioè un’indipendenza de facto entro la cornice della Repubblica di Cina e una non indipendenza formale come Repubblica di Taiwan. Sostanzialmente una non soluzione, che ha consentito sin qui di mantenere in equilibrio l’ecosistema taiwanese tra tutela difensiva statunitense e profonde relazioni commerciali con la Repubblica Popolare. Né DPP né GMD accettano il modello “un paese, due sistemi”, che il PCC vorrebbe applicare anche a Taiwan dopo quella che chiama “riunificazione” così come fatto a Hong Kong.
Eppure, nonostante il Wall Street Journal sostenga che Pechino non abbia più amici a Taipei c’è una differenza rilevante, che sfocia nella sfera identitaria. Il GMD continua a riconoscere il “consenso del 1992”, un accordo tra funzionari delle due sponde dello Stretto che riconosce l’esistenza di una “unica Cina”. Un passaggio raccontato però diversamente dalle due parti. Per il GMD, si tratta di una “unica Cina con diverse interpretazioni”. Cioè si è stabilito che Taiwan fa parte della Cina ma si è anche evitato di stabilire quale fosse l’autorità legittima tra Repubblica Popolare e Repubblica di Cina. Una sorta di accordo di essere in disaccordo. Per il PCC invece, riconoscere che esiste una “unica Cina” significa di fatto dire che Taiwan dovrà tornare a far parte della Repubblica Popolare, visto che è quella riconosciuta come legittima da quasi tutti i Paesi del mondo.
Il DPP invece non riconosce il principio del “consenso del 1992” e si dice pronto al dialogo con Pechino ma senza precondizioni, dunque col riconoscimento da parte del PCC dell’esistenza di due “entità non interdipendenti”. Una posizione smussata nel corso del tempo, visto che inizialmente il partito era più marcatamente indipendentista nel vero senso del termine, cioè perseguiva quantomeno idealmente una dichiarazione di indipendenza formale che ora non sembra più nei programmi. La posizione della presidente uscente Tsai Ing-wen si può definire sostanzialmente centrista, rafforzata anche dalla sua pregressa esperienza a capo del Consiglio degli Affari continentali, l’organo amministrativo taiwanese che si occupa dei rapporti con Pechino. Ma da quando è al potere, nel 2016, il dialogo politico intrastretto si è azzerato vista l’inconciliabilità tra le rispettive condizioni.
Alle elezioni di gennaio il DPP si presenta con la candidatura di Lai Ching-te, l’attuale vicepresidente. Pechino lo percepisce come una figura più “radicale” di Tsai, viste le sue passate dichiarazioni esplicitamente a favore di una dichiarazione di indipendenza. Lai ha in realtà rivisto la propria retorica, provando a porsi in linea con Tsai, ex rivale interna al DPP tanto che nel 2019 il partito arrivò sull’orlo della scissione. Nel 2020, la presidente uscente ha vinto le elezioni anche e forse soprattutto grazie alla sua posizione “calma” sui rapporti intrastretto. Una postura chiara ma allo stesso tempo prevedibile. Pechino ritiene invece, o racconta di ritenere, che Lai possa essere un agente di maggiore imprevedibilità. Come esempio viene citata anche una sua dichiarazione dello scorso luglio, quando disse che un giorno l’obiettivo sarà quello di entrare alla Casa Bianca, cosa che sarebbe possibile solo in presenza di un riconoscimento diplomatico ufficiale di Taipei da parte di Washington e dunque l’uscita dalla tradizionale “ambiguità strategica”.
Il GMD ha invece scelto Hou Yu-ih, ex poliziotto e attuale sindaco di Nuova Taipei. Ma la grande novità di queste elezioni è la presenza di un terzo incomodo serio, vale a dire Ko Wen-je. Ex chirurgo ed ex sindaco di Taipei, Ko ha fondato pochi anni fa il Taiwan People’s Party (TPP) e si propone come una “terza via” per superare la storica polarizzazione politico-identitaria tra GMD e DPP. Ko critica entrambi i partiti per la loro posizione “ideologica” a cui oppone un approccio “pragmatico”, che avrebbe convinto diversi giovani. Definendo il DPP troppo ostile e il GMD troppo amichevole con Pechino, Ko non si allontana comunque troppo dalle posizioni dell’attuale opposizione sui rapporti intrastretto, tanto da proporre con forza un riequilibrio della postura di Taipei e il riavvio del dialogo con il PCC. A differenza del GMD, non ha però riconosciuto esplicitamente il “consenso del 1992”, cavandosela sin qui dicendo che prima di esprimersi sul punto dovrebbe confrontarsi con Xi Jinping per capire la sua interpretazione di quell’accordo.
Ne ho scritto più nel dettaglio qui.
La campagna elettorale: i temi
Dopo il summit Biden-Xi, sia Lai sia Tsai hanno allontanato l’ipotesi di un’invasione, secondo il GMD un modo per smentire la sua etichetta di “scelta tra guerra e pace”. Pechino ha mandato nuovi avvertimenti. Gli amministratori delegati di Taiwan sono ottimisti per il 2024. Tuttavia, il 60% teme lo scoppio di una guerra entro cinque anni, timori che vanno oltre quelli della maggior parte delle persone.
Proprio i rapporti intrastretto sono stato il principale terreno di scontro tra i candidati, come da tradizione per le presidenziali ma forse ancora di più dopo le tensioni degli ultimi anni e i profili dei candidati. Lai viene accusato di essere indipendentista per le sue note dichiarazioni passate, lui ribatte che “agli occhi di Pechino siamo tutti separatisti”.
Il dibattito tv
Sabato 30 dicembre si è svolto il primo e unico dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza, caratterizzato da molta retorica, tante accuse incrociate, diversi errori e inesattezze, non tantissimi contenuti concreti.
Lai ha subito attaccato Hou e Ko, doppio binario che ha mantenuto sino alla fine. Descrive il primo come un residuo del passato tra consenso del 1992, accordi economici con Pechino e centrali nucleare. Ko viene invece etichettato come qualcuno che “parla molto senza fare nulla”. Nel suo discorso iniziale, ha ribadito l’impegno a mantenere pace e status quo, ma anche al rafforzamento della difesa e della sicurezza nazionale, sottolineando il ruolo globale di Taipei e ancora una volta la scelta tra democrazia e autoritarismo. Paventando lo stop ai rafforzamenti difensivi e a una maggiore dipendenza economica da Pechino.
Hou si è concentrato esclusivamente su Lai, ignorando Ko per quasi tutto il dibattito di circa due ore. Ha tirato fuori una lavagnetta con 10 domande a Lai su una serie di temi su ui il DPP non avrebbe dato risposte ai cittadini tra cui scandali energetici, sicurezza alimentare, scarsità di acqua ed elettricità, giustizia abitativa, tensioni intrastretto, salari bassi per i giovani e corruzione. Ha spesso parlato in hokkien, che a Taiwan definiscono “taiwanese”, per suonare vicino alla popolazione. Anche quella meno giovane. Ha poi accusato Lai di non rispettare la costituzione della Repubblica di Cina, definendolo “ingrato” e ritenendo che la sua posizione indipendentista fa il male di Taiwan. Ha poi ribadito il suo sì al consenso del 1992 e il no a “un paese, due sistemi”, che ha più volte sottolineato essere due cose diverse.
Ko ha come sempre parlato di vecchia e nuova politica, mettendo in contrapposizione i due partiti tradizionali e le loro posizioni ideologiche al suo approccio pragmatico e “scientifico”. Le critiche di Ko si sono rivolte comunque soprattutto a Lai e al DPP, con la tesi che Tsai avrebbe proseguito sugli stessi errori del predecessore e rivale Ma Ying-jeou. Rispetto a Lai e Hou ha provato a concentrarsi su temi più interni, reiterando più volte la sua pretesa di onestà accompagnata alla carriera di medico che ha preceduto l’elezione a sindaco di Taipei.
La sezione di domande della stampa è stata dominata dai rapporti con Pechino e Washington. Lai ha citato diverse volte la sua vice Hsiao, ex rappresentante negli Usa, a differenza di Hou e Ko. Segnale che Hsiao è apprezzata dai sondaggi, nonché da Washington tanto che l’opposizione sostiene malignamente che sia stata scelta su indicazione americana perché non ci si fida dell’imprevedibile Lai. Hou ha sostenuto che dialogare con la Cina non significa essere pro Cina mentre Ko ha appoggiato la teoria di Usa e Ue di “riduzione del rischio” e di non disaccoppiamento, sostenendo che il DPP vuole solo competere, il GMD solo collaborare.
Lai ha parzialmente criticato la costituzione della Repubblica di Cina in merito ai rapporti con Pechino (facendo un po’ di confusione col consenso del 1992), salvo poi correggersi a dibattito concluso. Hou e Ko si sono espressi a favore della costituzione. Il primo, come detto, ha ribadito il sì anche al “consenso del 1992” difendendo i risultati raggiunti dal GMD attraverso negoziazioni che il DPP non sarebbe in grado di fare.
Si è parlato a lungo di proprietà immobiliare, con accuse incrociate che hanno creato non poca confusione toccando anche il tema delle politiche abitative portate avanti dai candidati rispettivamente al governo centrale o da sindaci di Taipei, Tainan e Nuova Taipei. Breve passaggio anche sulla pena di morte: Hou e Ko a favore del mantenimento, pur con sfumature diverse, Lai piuttosto evasivo. Stilettata di Lai a Ko, quando lo definisce il “meno adatto” a parlare di integrità e onestà dei tre, ricordando che ha disatteso l’accordo di coalizione raggiunto col GMD a novembre.
Negli appelli finali di 5 minuti, qualche sorpresa. Ko chiede una riforma del sistema e un passaggio al premierato più forte. “Userò tutte le mie capacità solo per servire la popolazione, non partiti o conglomerati”. In un passaggio precedente tossisce e si fa sfuggire qualche lacrima, subito criticata da Lai mentre Hou ne approfitta per rivolgersi per la prima volta al rivale dell’opposizione e alleato mancato. “Dico a Ko di non piangere e andare avanti resistendo agli attacchi. Come lui sono convinto che serva una vita migliore”. Cita poi Chiang Wei-shui, primo fondatore del Partito popolare di Taiwan da cui prende il nome il TPP. Parla poi di unità e offre ufficialmente un ruolo a Ko in caso di vittoria. Il tentativo è quello di attrarre in qualche modo gli elettori del TPP. Lai continua a porsi in continuità con Tsai, dice che ora Taiwan ha più fiducia nella sua cultura e ha un’identità “più precisa”. E aggiunge: “Siamo meno dipendenti dalla Cina”. Insiste sul fatto che solo col DPP Taiwan possa guardare al futuro, ma sul finale prova a stemperare le accuse di essere troppo radicale citando la Repubblica di Cina.
Qui un resoconto più dettagliato.
Il 1° gennaio si è invece svolto il dibattito tv tra i candidati alla vicepresidenza. Apparsa molto decisa Hsiao, eloquente e sarcastico Jaw (non a caso polemista televisivo) che ha seguito Hou ignorando a lungo la vice di Ko, Cynthia Wu, che ha provato a mettere in risalto la sua preparazione in campo economico-finanziario. Qui un resoconto di New Bloom.
Sempre il 1° gennaio c’è stato l’ultimo discorso di inizio anno di Tsai. Sulle questioni intrastretto, Tsai chiede il perseguimento di una “coesistenza pacifica”. Nello specifico, propone di “cercare insieme una via stabile e a lungo termine per la nostra coesistenza pacifica”, allo stesso tempo ribadendo (in una risposta indiretta al discorso di Xi del giorno precedente) che “il futuro di Taiwan deve essere deciso dai suoi 23 milioni di abitanti”. Qui il discorso completo.
Gli ultimi sondaggi
A due settimane dal voto, tutti i sondaggi danno Lai favorito con una forbice che a seconda dei casi passa da un minimo del 3 a un massimo del 10%. Incertezza sul secondo tra Hou e Ko. Dopo essere cresciuto rispetto a Ko in seguito alla rottura dell’accordo di coalizione nell’opposizione, Hou è tornato in leggera flessione. Senza dimenticare che oltre il 10% è ancora incerto sul chi votare. Ci si aspetta un’affluenza minore del 70%, sotto il livello del 2020.
La vittoria di Lai è probabile ma non scontata, anche perché i sondaggi hanno spesso dimostrato di non essere del tutto affidabili e sono davvero molto diversi l’uno dall’altro. Con un’opposizione unita, la vittoria di Hou e Ko a prescindere dall’ordine del ticket sarebbe probabilmente stata quasi garantita.
A prescindere dalle presidenziali, il DPP si aspetta di perdere la maggioranza allo yuan legislativo, il parlamento taiwanese. Un’eventuale coalizione tra GMD e TPP consegnerebbe la maggioranza parlamentare all’opposizione, a quel punto in grado di ostacolare diverse scelte dell’ipotetica amministrazione Lai, con possibili ripercussioni su una serie dossier a partire da quello sulla difesa. Il capolista del GMD alle legislative è peraltro il battagliero Han Kuo-yu, ribattezzato dallo stesso partito come il suo “super guerriero”. Nel 2018, il populista Han venne eletto a sorpresa sindaco di Kaohsiung, una storica roccaforte del DPP. Venne poi rimosso dopo aver perso le presidenziali del 2020 contro Tsai, ma è rimasto molto popolare all’interno dell’elettorato del GMD, in particolare quello più radicale. Han sembra mirare alla nomina di presidente dello yuan legislativo, ruolo in cui amplificherebbe la contrapposizione col DPP. Diventa cruciale capire il risultato del TPP per capire se Ko potrà davvero giocare un ruolo di kingmaker come sembra altamente possibile. Posizione da cui potrebbe tentare di affossare il GMD nei prossimi 4 anni e presentarsi come vera alternativa al DPP alle prossime elezioni del 2028. Viceversa, il GMD potrebbe cercare di “normalizzare” Ko, assorbirlo o neutralizzarlo, per mantenere le ambizioni maggioritarie in vista del 2028 quando potrebbe avere un potenziale candidato più giovane e forse più convincente come Chiang Wan-an, sindaco di Taipei e pronipote di Chiang Kai-shek. Qui ne avevo scritto un breve ritratto.
Le manovre di Pechino (e Washington)
Li Fei, professore del Centro di ricerca su Taiwan dell’Università di Xiamen, ha dichiarato al Global Times che la Cina continentale “non ha alcun interesse a intervenire nelle elezioni regionali, poiché non ha mai riposto la speranza in un singolo partito per realizzare la riunificazione, poiché nessuno di questi politici è pienamente affidabile e la Cina continentale può contare solo sulla propria forza e capacità”. E ancora: “Indipendentemente da chi vincerà le elezioni del prossimo anno, la Cina continentale continuerà a spingere il processo di riunificazione in modi diversi. Da un lato, il continente libererà più risorse per favorire direttamente i connazionali di Taiwan, consentendo loro di condividere il suo sviluppo; dall’altro, continuerà a rafforzare la sua potenza militare per scoraggiare i secessionisti e le forze straniere che interferiscono negli affari tra le due sponde dello Stretto e prepararsi al peggiore degli scenari”.
Pechino ha intanto nominato un nuovo ministro della Difesa, Dong Jun, con esperienza nel Comando del Teatro orientale dell’Esercito popolare di liberazione, quello che ha in carico Taiwan.
La bozza definitiva del National Defense Authorization Act (NDAA) per il 2024 autorizza il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti a “stabilire un programma completo di formazione, consulenza e rafforzamento delle capacità istituzionali” per le forze armate di Taiwan. L’anno prossimo Taiwan invierà 114 soldati negli Stati Uniti per addestrarsi ai carri armati Abrams e ai sistemi missilistici HIMARS. Il Dipartimento di Stato americano ha approvato la vendita di attrezzature per 300 milioni di dollari per aiutare a mantenere i sistemi informativi tattici di Taiwan.
Il principale inviato commerciale degli Stati Uniti afferma che, nonostante i tentativi dell’amministrazione Tsai, Taiwan non otterrà un accordo di libero scambio con un nuovo accesso al mercato o tariffe ridotte.
Il diplomatico Alexander Yui è arrivato a Washington per assumere il nuovo ruolo di rappresentante negli Stati Uniti al posto di quella che il DPP ha già ribattezzato “gatta guerriera” (con riferimento ai “lupi guerrieri” di Pechino) Hsiao Bi-khim, candidata alla vicepresidenza con Lai.
Anche il ministro degli Esteri, Joseph Wu, non resterà al suo posto dopo diversi anni a partire dal prossimo maggio, dopo l’insediamento del nuovo presidente.
I diari di Chiang Kai-shek e il kaoliang
Un imponente memoriale con all’interno un museo coi suoi cimeli e una grande statua con tanto di guardia d’onore e alzabandiera. Ma anche un’esposizione sulla sua repressione dell’opposizione a Taiwan durante la legge marziale e quella che è passata alla storia come era del “terrore bianco”. E un’ampia piazza che è stata rinominata Liberty Square. Pochi personaggi della storia recente sono così controversi come Chiang Kai-shek, anche all’interno di quella che può essere considerata la loro patria. Un personaggio di cui per la prima volta vengono ora pubblicati i diari. Ne ho scritto qui.
Sette novembre 2015. All’hotel Shangri-La di Singapore va in scena un incontro storico: Xi Jinping e Ma Ying-jeou sono i primi leader di Repubblica Popolare Cinese e Repubblica di Cina (Taiwan) a incontrarsi dal 1949 in avanti. Sul luogo del vertice nessuna bandiera o riferimento alle due entità, ma una bottiglia di kaoliang. Si tratta di un distillato di sorgo che raggiunge in media i 56 gradi alcolici. Una delle bevande più diffuse a Taiwan, soprattutto nelle zone rurali e tra le generazioni over 40. Viene prodotto soprattutto tra Kinmen e Matsu, due piccoli arcipelaghi a pochi chilometri di distanza dalle coste del Fujian cinese. Entrambi erano avamposti militari dell’esercito di Chiang Kai-shek durante e dopo la guerra civile persa contro il Partito comunista di Mao Zedong, nonché teatro di alcuni bombardamenti delle forze continentali durante la prima e la seconda crisi dello Stretto negli anni Cinquanta. Oggi sono territori amministrati da Taipei, ma nel punto più vicino Kinmen si trova a soli 2 chilometri dalla metropoli cinese di Xiamen, di cui si distinguono chiaramente i grattacieli. Bevendolo in quell’incontro del 2015, Xi e Ma hanno operato un gesto dall’alto valore simbolico, conferendo una nuova dimensione al kaoliang, tanto da essere ribattezzato da qualcuno il “liquore della pace”. Quando a dicembre 2022 la Cina ne ha bloccato le importazioni, la notizia è stata accolta con sgomento. Così come con sollievo è stata accolta poi la rimozione del divieto, avvenuta a febbraio 2023. Ne ho scritto qui.
Altre notizie e segnalazioni
Chip: accordo tra TSMC e i sindacati dell’Arizona per i due impianti in costruzione nei pressi di Phoenix.
Il presidente della TSMC, Mark Liu, andrà in pensione il prossimo anno dopo la riunione degli investitori di giugno.
Il gigante manifatturiero Foxconn sta pianificando di investire quasi 50 miliardi di dollari taiwanesi (1,59 miliardi di dollari) in India, ha dichiarato lunedì scorso. Ma portare le linee produttive in India non si sta rivelando semplice.
Ho scritto un ritratto della ministra del Digitale Audrey Tang, qui.
Secondo una ricerca, esisterebbe un’associazioni delle attività militari nelle periferie di Taiwan con le ricerche su Internet per depressione, suicidio ed emigrazione tra i cittadini di Taiwan.
New Bloom ha rilasciato un comunicato in solidarietà con la Palestina. Anche la musica elettronica si muove.
A fine novembre è morto Henry Kissinger. Qui un pezzo sul modo in cui viene ricordato in Asia orientale, Taiwan compresa.
Entro giugno il rappresentante italiano a Taipei, Davide Giglio, lascerà il posto per diventare ambasciatore nelle Filippine. Come segnalato da Giulia Pompili sulla sua newsletter Katane, al suo posto arriverà Marco Lombardi, ex ambasciatore in Tanzania con esperienze in Giappone.
Di Lorenzo Lamperti
Taiwan Files – Guida alle elezioni presidenziali e legislative 2024
Taiwan Files – Le elezioni locali 2022 e l’impatto sulle presidenziali 2024
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.