Le reazioni al discorso di insediamento di Lai Ching-te, il bilancio delle esercitazioni militari di Pechino, riforme e proteste, McCaul a Taipei e nuovi segnali, chip, il caso Mayday. La rubrica di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
Solo una settimana è passata dall’insediamento di Lai Ching-te (qui lo speciale col bilancio della presidenza Tsai Ing-wen), ma è già accaduto tantissimo. Le reazioni al suo discorso di insediamento (qui e qui le mie analisi), le esercitazioni militari di due giorni effettuate da Pechino, il caos allo yuan legislativo per la riforma dei poteri del parlamento, le proteste per le strade di Taipei.
Le reazioni al discorso di Lai
Partiamo da un presupposto. L’etichetta di “secessionista” è stata utilizzata da Pechino non solo per Lai, ma anche per Tsai. Secondo il Partito comunista, il termine va utilizzato per chi non riconosce il principio della “unica Cina”, contenuto nel “consenso del 1992“, un accordo raggiunto tra emissari nominati dal PCC e dal Guomindang (GMD), oggi all’opposizione. Il GMD aggiunge tradizionalmente una coda, “unica Cina, con diverse interpretazioni”, che significa di fatto dire che Taiwan fa parte della Cina senza chiarire se si tratti della Repubblica Popolare o della Repubblica di Cina. Rimandando a un ipotetico domani la soluzione dell’artificio retorico. Per il PCC, invece, visto che la quasi totalità dei paesi al mondo ha rapporti diplomatici con Pechino e non con Taipei significa dire che Taiwan fa parte della Repubblica Popolare.
Il DPP di Lai e Tsai non riconosce il “consenso del 1992” ed è per questo che Pechino non ha mai aperto al dialogo politico. Ma tra Tsai e Lai ci sono molte differenze, come già raccontato nel dettaglio qui. In aggiunta a quanto già detto, va sottolineato che qualsiasi altra cosa che la mancata accettazione del “consenso del 1992” sarebbe stata accolta in modo negativo da Pechino, come dimostra la già dura reazione all’avvento della ben più moderata Tsai. Allo stesso tempo, non si può nemmeno non notare che le differenze tra i due esistono eccome. E non basta osservare all’intenzione di tutelare lo status quo per concludere che la postura tra i due è la stessa.
Al di là delle scelte lessicali, il discorso di Lai ha sostanzialmente taiwanesizzato lo status quo, erodendone l’ambiguità, caratteristica sin qui fondamentale per il suo mantenimento. Lo ha fatto, oltre a quanto già raccontato qui, equiparando il nome ufficiale di Repubblica di Cina al nome Taiwan, menzionando la “Repubblica Popolare” o i “rapporti” con la “Cina”, mentre Tsai nei discorsi ufficiali aveva preferito utilizzare “autorità di Pechino” e “relazioni intrastretto”. Inoltre, come notato da Amanda Hsiao, non ha riaffermato la centralità della costituzione della Repubblica di Cina nel regolare i rapporti tra le due sponde. Non si tratta di problemi lessicali, per Pechino taiwanesizzare lo status quo o arrivare a una dichiarazione di indipendenza formale (cosa che non è nei programmi e nelle possibilità di Lai) equivale a recidere il legame con il mondo cinese, non solo quello politico ma anche identitario e quasi “geografico”, vista l’insistenza di Lai sull’internazionalizzazione di Taiwan e il suo posizionamento nella prima catena di isole del Pacifico.
Non appare sorprendente che il discorso di Lai abbia ricevuto un coro di critiche dai media statali cinesi. “Il futuro di Taiwan non può essere determinato da un piccolo gruppo di forze separatiste indipendentiste di Taiwan. Può essere determinato solo dagli oltre 1,4 miliardi di cinesi, compresi i connazionali di Taiwan”, si legge sul Quotidiano del Popolo a più riprese nei giorni scorsi. “L’indipendenza di Taiwan è un vicolo cieco e la sconsideratezza porterà a una fine più rapida e confusa”, dice invece il noto influencer nazionalista Hu Xijin, ex direttore del tabloid Global Times.
Il ministero degli Esteri di Pechino sostiene che “il discorso sia stato una vera e propria confessione dell’indipendenza di Taiwan”, definendo Lai “un traditore dell’opinione pubblica dell’isola e un distruttore della pace e della stabilità”. Ampio spazio alla consueta dura retorica. “Chi sostiene l’indipendenza si romperà la testa”, ha aggiunto ancora il portavoce degli Esteri Wang Wenbin, sostenendo che Lai “spinge Taiwan verso la guerra”. E ancora: “Il pezzo degli scacchi diventerà inevitabilmente una pedina sacrificale”, ha detto per esempio Chen Binhua, portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan.
Interessante invece l’opinione di Zheng Yongnian, che ha un tono diverso rispetto al resto di quanto si è potuto leggere sui media cinesi. Ne riporto qui alcuni estratti.
Obiettivamente, il tempo è ancora dalla nostra parte. Le forze politiche dell’isola sono molto divise e frammentate e il Partito Democratico Progressista (DPP) non è l’unica forza politica. Ricevere oltre il 40% dei voti non significa che Lai Ching-te possa dominare tutto. A differenza della vecchia generazione che vedeva la Cina continentale attraverso una lente ideologica, per la generazione più giovane (Gen Z) di Taiwan la democrazia sta diventando sempre più uno slogan illusorio. Ciò che hanno visto fin dalla nascita è una Cina forte e lo sviluppo dell’isola non può soddisfare le loro esigenze di sviluppo personale.
Possiamo interpretare l’atteggiamento del popolo taiwanese: sebbene non voglia perseguire immediatamente l’unificazione, non vuole nemmeno l’indipendenza. Sperano invece di mantenere lo status quo, di preservare la pace e di evitare il conflitto. Questo atteggiamento merita la nostra comprensione e il nostro rispetto. Negli ultimi anni, la Cina continentale ha dato prova di resilienza economica di fronte all’impatto della pandemia COVID-19 e del conflitto Russia-Ucraina. La modernizzazione in stile cinese pone una solida base materiale per raggiungere l’unificazione. Per la popolazione, lo sviluppo è la questione più importante.ù
Riattraversando lo Stretto, molto rilevante un virgolettato contenuto in un ottimo articolo del Financial Times. Lo riporto qui sotto, perché dice esplicitamente quello che altre figure dell’orbita Tsai lasciano intendere senza ancora esplicitare.
“Sì, Lai si sta scrollando di dosso un po’ di vaghezza della passata politica dello Stretto”, ha detto un funzionario, pur ammettendo che la nuova chiarezza di Lai probabilmente complicherà le relazioni con la Cina. “La posizione di Lai è un passo indietro verso un maggiore confronto, annullando gran parte della linea di Tsai”, afferma Chao Chun-shan, un accademico di Taiwan che ha consigliato Tsai e i suoi tre predecessori sulla politica cinese.
Il bilancio delle esercitazioni
Ampiezza, profondità e rapidità. Sono le tre parole chiave che hanno guidato la due giorni di esercitazioni militari della Cina intorno a Taiwan. Già dal nome, “Spada Congiunta 2024A”, pare probabile che non resteranno le uniche di quest’anno. Si tratta delle terze manovre così estese degli ultimi due anni. Le prime sono state quelle dell’agosto 2022, in risposta alla visita a Taipei di Nancy Pelosi, allora presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. Le seconde quelle dell’aprile 2023, dopo l’incontro tra l’ex presidente taiwanese Tsai Ing-wen e Kevin McCarthy, successore di Pelosi, in California. Stavolta, l’innesco è stato l’insediamento del neo presidente taiwanese Lai Ching-te, protagonista di un discorso di inaugurazione ben più assertivo e meno ambiguo sulla sovranità rispetto a quelli dei suoi predecessori.
L’Esercito Popolare di Liberazione ha presentato le manovre come una “punizione per gli indipendentisti” di Taiwan e un “severo avvertimento contro interferenze e provocazioni esterne”. Viste le passate coercizioni contro il governo della piu moderata Tsai, difficile pensare che non ci sarebbe stata alcuna reazione con un discorso diverso da parte di Lai, che però certo si è subito mostrato meno incline al compromesso. In passato, si è avuta più volte prova che mostrare i muscoli per la Cina ha un effetto controproducente sul fronte politico, favorendo proprio il Partito progressista democratico (DPP) di Lai. Per questo, a Taipei si davano sì per scontate delle esercitazioni, ma si pensava che Pechino avrebbe aspettato di piu per lanciarle. Il presidente Xi Jinping ha invece scelto di muoversi subito, legando in maniera esplicita le esercitazioni a un discorso descritto dai vari media di Stato e dai funzionari cinesi come “provocatorio” e “secessionista”. L’obiettivo, come sempre, è anche e soprattutto quello di mostrare all’opinione pubblica cinese di governare il dossier taiwanese.
Qual è il bilancio delle esercitazioni Spada Congiunta 2024A? Il loro impatto sui taiwanesi è stato nettamente inferiore rispetto a quelle di agosto 2022. Allora furono lanciati 11 missili balistici, cinque dei quali transitati nello spazio sopra l’isola. Ciò aveva comportato la creazione di zone di interdizione aerea e navale, con la cancellazione di diversi voli civili e momentanei problemi sulle rotte commerciali. Stavolta, non sono state fornite le coordinate precise delle operazioni, il che ha lasciato intendere sin da subito che non ci sarebbero stati lanci balistici. Secondo il ministero della Difesa di Taipei, non sono state effettuate nemmeno esercitazioni a fuoco vivo. La valenza dei lanci balistici è anche e soprattutto psicologica, la loro assenza non dimostra una qualità inferiore delle operazioni. E nemmeno la loro durata, solo due giorni contro i dieci del 2022 e i tre dell’aprile 2023. Anzi, proprio la rapidità mostra la capacità di prendere controllo di tutti le acque intorno ai territori amministrati da Taipei molto rapidamente, evitando dunque interventi esterni.
Appare chiaro, inoltre, che l’obiettivo principale in questo caso è stato diverso. Più che inscenare una simulazione di invasione anfibia, la sensazione è che la priorità sia stata quella di affinare le capacità di operare un blocco navale. Lo ha sostenuto sulla CCTV anche l’analista militare Zhang Chi. Come ad agosto 2022, è stata diffusa una mappa con cinque aree interessate dalle manovre. Rispetto ad allora il numero di mezzi impiegati appare lievemente inferiore, ma sul fronte qualitativo sono stati impiegati diverse tipologie di mezzi militari. Nella seconda giornata, complice condizioni atmosferiche leggermente migliorate dopo la pioggia di giovedì, sono stati osservati 62 jet, 19 navi da guerra e 7 imbarcazioni della guardia costiera cinese nella regione intorno a Taiwan. In 47 casi gli aerei sono entrati nello spazio di identificazione di difesa aerea taiwanese o hanno oltrepassato la linea mediana, sorta di “confine” sullo Stretto non riconosciuto ma ampiamente rispettato sino ad agosto 2022. Non si tratta di un record: durante le esercitazioni di aprile 2023 si erano mossi 71 jet, con il coinvolgimento della portaerei Shandong.
Stavolta niente portaerei ma, durante la prima giornata, pattugliamenti congiunti in modalità di combattimento. Nella seconda giornata le operazioni si sono concentrate su simulazioni di attacchi congiunti contro “obiettivi chiave”, sia civili sia militari, in quello che il portavoce dell’esercito cinese Li Xi ha definito un “test di presa del potere”.
La mappa delle manovre rende chiari quali sono questi obiettivi: i luoghi simbolo del potere politico a Taipei, le importanti basi militari della costa orientale e la città meridionale di Kaohsiung, dove si trova il principale porto di Taiwan e suo sbocco sul mar Cinese meridionale. Potrebbero essere questi alcuni degli obiettivi da colpire in un ipotetico scenario di blocco navale. Le esercitazioni volevano restituire un senso di accerchiamento, visto che le aree di manovra hanno occupato tutti i lati dell’isola principale di Taiwan, compresa la costa orientale. Anzi, è proprio al largo della città orientale di Hualien (epicentro del forte terremoto dello scorso aprile) che i mezzi cinesi si sono maggiormente avvicinati alle coste taiwanese. Si tratta di un segnale rilevante, perché il fronte orientale dell’isola (affacciato verso il Pacifico) è l’unico da cui potrebbero arrivare ipotetici aiuti dall’esterno. Non a caso, in quest’area è stato simulato il bombardamento di navi straniere. Un messaggio a Stati Uniti e Giappone. Per la prima volta, inoltre sulla costa orientale sono state impegnate anche le navi della guardia costiera in operazioni di ispezione e controllo delle acque. In questo caso il segnale è più simbolico, come a dire che Taiwan è inglobata nelle acque cinese, con lo Stretto (affacciato sulla costa occidentale dell’isola) trasformato in una sorta di “mare interno”.
Lo scenario del blocco navale è particolarmente appetibile per Xi, anche perché replicherebbe il “modello Pechino” con cui nel 1948 i comunisti di Mao Zedong conseguirono una vittoria fondamentale contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek: un lungo e paziente accerchiamento di due mesi, con il blocco di tutti i rifornimenti, che forzò i rivali alla resa. Una strategia che alcuni analisti cinesi immaginano di replicare per raggiungere una “riunificazione intelligente” con Taiwan.
Un eventuale futuro blocco navale giocherebbe su due grandi debolezze di Taipei: la forte dipendenza dall’export e la totale dipendenza dall’approvvigionamento energetico. Si stima che un blocco di circa tre settimane potrebbe portare a un sostanziale esaurimento delle scorte energetiche. Non a caso l’opposizione chiede a gran voce di reinserire il nucleare nel paniere energetico, un tema divenuto tabù dopo il disastro del 2011 a Fukushima causato dal maremoto e terremoto del Tohoku. Gli scettici sottolineano come anche Taiwan sia un’area di grande attività sismologica.
Un’altra novità importante delle esercitazioni di questi due giorni è stata l’inclusione delle isole minori. Kinmen, Matsu, Dongyin e Wuqiu sono tutte amministrate da Taipei, ma si trovano a pochi chilometri di distanza dal Fujian cinese. Nel caso di Kinmen, nel punto più vicino ci sono meno di cinque chilometri a separarla dalla metropoli di Xiamen. Intorno a queste isole, si è mossa la guardia costiera cinese, arrivando anche a meno di tre miglia nautiche da Wuqiu e in almeno quattro casi valicando le cosiddette “acque proibite”, cioè quelle più vicine alla costa. Sono pressoché impossibili da difendere ma le opinioni sull’opportunità di Pechino di invaderle come “stress test” sono contrastanti. Prendere queste isole senza il bersaglio principale (cioè l’isola di Taiwan) potrebbe avere pesanti controindicazioni. Il principale sarebbe quello di concedere tempo a Taiwan e alleati di prepararsi a difendere l’isola principale, mentre le operazioni Spada Congiunta hanno mostrato proprio l’obiettivo opposto: la rapidità. Un’azione isolata contro una di queste isole rischierebbe inoltre di recidere l’unico canale di comunicazione politico rimasto tra le due sponde, visto che hanno tutti governi locali dialoganti. togliere una ragione a Taiwan di non dichiarare l’indipendenza formale visto che queste isole sono la rappresentazione fisica del nome ufficiale con cui è indipendente de facto, Repubblica di Cina. Potrebbe invece essere diverso il discorso sulle Dongsha, isolotti non lontani dal Guangdong e da Hong Kong. Essendo disabitati, in quel caso un’azione preventiva sarebbe più indolore.
“La breve durata suggerisce che Pechino potrebbe essere in grado di una manovra ad ampio raggio senza che Giappone e Usa abbiano il tempo di intervenire”, dice Lu Li-shih, ex istruttore dell’accademia navale di Kaohsiung.
Importante anche sottolineare che cosa “non” è successo durante le esercitazioni. A Taipei, c’era preoccupazione per possibili incursioni entro le 24 miglia nautiche dalle coste dell’isola principale. È quella la soglia che segna l’ingresso nelle acque contigue ed è lì che l’esercito taiwanese dispiega abitualmente i suoi mezzi per impedire manovre rivali. Come accaduto nelle due precedenti occasioni, pare che navi e jet cinesi siano arrivati a lambire quel “limite” ma senza superarlo, evitando confronti troppo ravvicinati con navi e jet taiwanesi. Circostanza che ha dunque reso possibile evitare il verificarsi di incidenti non voluti, passibili di causare un’escalation.
Di conseguenza, un appunto importante: contrariamente a quanto si legge su diverse fonti in italiano, nessun jet di Pechino è sin qui entrato nello “spazio aereo” di Taiwan, bensì nello spazio di identificazione di difesa aerea. Come detto decine di volte, sono cose ben diverse, anche per le possibili conseguenze. tratta di una sottolineatura fondamentale.
“Si tratta di manovre di coercizione non bellica”, ha dichiarato ai media taiwanesi Su Tzu-yun, analista presso l’Institute for National Defense and Security Research, sostenuto dal ministero della Difesa. “Se entrassero nella nostra zona di 12 miglia nautiche scatenerebbero una forte risposta anche da parte degli Stati Uniti, ma quello che stanno facendo ora è cercare di minare la nostra giurisdizione in un modo che non ci permette di fare molto”. Secondo diversi analisti taiwanesi, le esercitazioni sono servite a testare la prontezza delle difese di Taipei, in tanti sottolineano la possibilità che manovre come queste possano diventare regolari.
È quella che l’ammiraglio Chen Yeong-kang, ex comandante della marina taiwanese, aveva definito in un’intervista che gli avevo fatto per La Stampa nell’aprile del 2023, “strategia dell’anaconda“. La stretta potrebbe essere solo all’inizio. “Esercitazioni come quelle di oggi diventeranno un evento di routine”, dice alla Reuters Wu Xinbo della Fudan University di Shanghai.
Interessanti anche i segnali politici. Sul Quotidiano del Popolo di venerdì 24 maggio, una pagina intera è dedicata alle esercitazioni. Appare anche un articolo con delle rare interviste a taiwanesi residenti in Cina continentale. Tutti ovviamente danno la colpa delle tensioni al discorso “separatista” di Lai, ma il segnale interessante è quello di un tentativo di presentare quasi il neo presidente e il suo partito come dei “corpi estranei” all’interno di un’opinione pubblica taiwanese raccontata invece come più favorevole a Pechino. La strategia è funzionale al tentativo di rafforzare l’opposizione interna a Lai, ma anche a comunicare all’esterno che qualsiasi azione cinese è giustificata perché il suo presidente “tradisce il desiderio di pace dei compatrioti di Taiwan”.
Una narrativa alimentata dal fatto che il partito di governo ha perso la maggioranza al parlamento taiwanese, dove da giorni vanno in scena scontri anche fisici tra deputati per il tentativo dell’opposizione di approvare una riforma che darebbe maggiore potere al ramo legislativo. Ipotesi osteggiata da Lai, che prova a cavalcare le proteste contro la legge, con diversi attivisti che sostengono possa minare le fondamenta della democrazia taiwanese.
La mia analisi completa qui.
Riforme e proteste
Quasi centomila. È la stima delle persone accalcate venerdì sera (dopo un primo ciclo di proteste il martedì precedente, il secondo giorno di presidenza Lai) di fronte allo yuan legislativo di Taipei, per protestare contro una riforma voluta dall’opposizione e destinata ad ampliare il potere del parlamento. La notizia che domina tutti i telegiornali e prime pagine dei media di Taiwan è questa. Presente anche una rappresentazione ben meno nutrita di chi manifestava a favore.
Può apparire strano, nel secondo giorno delle esercitazioni delle forze armate cinese, per di più dichiaratamente destinate a testare la capacità di “presa del potere” sull’isola. In Cina l’argomento è stato per tutta la giornata il primo trend su Weibo. La maggioranza dell’opinione pubblica taiwanese continua invece a ritenere le esercitazioni una mossa soprattutto politica, per protestare contro l’insediamento di Lai. La mancanza di lanci di missili balistici e l’assenza di impatto su aviazione civile e rotte commerciali ha contribuito a mantenere le manovre militari sullo sfondo.
Martedì 28 maggio è prevista la ripresa dei lavori dopo che lo yuan legislativo ha approvato in seconda lettura alcuni emendamenti che rafforzano i suoi poteri investigativi. Gli emendamenti garantirebbero allo yuan legislativo “poteri investigativi” formali, a differenza della legge esistente, che stabilisce semplicemente che i deputati hanno il diritto di chiedere documenti alle agenzie governative.
Il GMD fa notare che in passato diversi esponenti del DPP sarebbero stati a favore di una simile riforma, mentre il partito di governo prova a rinsaldare il legame nel tempo parzialmente sfilacciato con gli attivisti e il Movimento dei Girasoli del 2014, sostenendo che la riforma rischia di minare il sistema democratico taiwanese e farebbe un favore a Pechino. Da vedere se la riforma, anche se approvata, passasse la prova della Corte costituzionale.
Sulla riforma ci sono pareri diametralmente opposti. Per avere due visioni molto diverse tra loro, qui Brian Hioe e qui Angelica Oung, che critica un approccio generale dei giornalisti stranieri che giudica troppo favorevole al DPP. Da riportare l’opinione espressa da William Yang, secondo cui le accuse (senza prove) del DPP circa un molto ipotetico legame tra GMD e PCC sulla riforma rischiano di frammentare e dividere ulteriormente politica e società taiwanesi, indebolendole.
McCaul a Taipei e altri segnali
Domenica 26 maggio è intanto arrivata a Taipei la prima delegazione del Congresso degli Stati Uniti dopo l’insediamento di Lai. A guidarla è Michael McCaul, falchissimo anticinese alla guida della Commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti. Pechino si è già lamentata, da seguire eventuali reazioni anche in vista dell’attesissimo incontro tra i rispettivi capi della Difesa, Lloyd Austin e Dong Jun, in programma allo Shangri-La Dialogue di Singapore nel fine settimana.
Nel frattempo, Lai è tornato a parlare in pubblico di Pechino. Ha confermato la condanna delle esercitazioni ma ha anche dichiarato di essere disponibile a collaborare con Pechino. “Non vedo l’ora di rafforzare la comprensione reciproca e la riconciliazione attraverso gli scambi e la cooperazione e di muoverci verso una posizione di pace e prosperità comune”, ha detto in un evento a Taipei.
Non è un caso che, dopo aver criticato le esercitazioni, l’opposizione del GMD chieda a Lai “risposte pragmatiche ed efficaci, oltre alla condanna verbale”. Il messaggio è chiaro: solo noi siamo in grado di dialogare con Pechino e la tua posizione ci mette a rischio.
Molto difficile, se non impossibile che un dialogo si riapra. Ma su alcuni singoli dossier non è escluso possano esserci miglioramenti. Uno di questi è il turismo. Il ministro dei Trasporti Li Men-yen ha dichiarato che si terrà una riunione interministeriale per discutere della sospensione dei viaggi tra Taiwan e la Cina continentale, nel tentativo di risolvere l’attuale situazione di stallo entro la fine di maggio. Nell’agosto 2019, Pechino ha bloccato i viaggi indipendenti a Taiwan e nel 2020 entrambe le parti hanno interrotto gli scambi di viaggi di gruppo a causa della pandemia.
Taiwan aveva inizialmente previsto di riprendere i viaggi organizzati in Cina continentale nell’agosto 2023, ma ha poi rinviato il tutto al febbraio 2024 a causa del persistere delle tensioni tra le due sponde dello Stretto. Tuttavia, a febbraio la Cina continentale non aveva accettato di permettere ai gruppi turistici di visitare Taiwan e il governo di Taipei ha deciso di vietare nuovamente ai gruppi turistici locali di recarsi in Cina continentale. Di conseguenza, mentre i tour programmati tra il 1° marzo e il 31 maggio di quest’anno sono andati avanti, quelli previsti dopo il 1° giugno sono stati cancellati. L’inversione di rotta ha irritato gli operatori turistici locali, che hanno minacciato di scendere in piazza se il divieto rimarrà in vigore dopo il 1° giugno.
La sensazione è che però si possa andare incontro a un periodo turbolento, per la scarsa per non dire inesistente fiducia tra le due sponde. Su Weibo, intanto, al termine delle esercitazioni fioccano commenti nazionalisti. C’è chi scrive che “non ci saranno altre elezioni a Taiwan”. Un altro commento recita: “La nostra generazione sarà testimone della storia, la nostra generazione vuole vedere il giorno della riunificazione”.
Il Brookings Institute ha condotto un sondaggio tra i taiwanesi per capire la percezione del rischio di un conflitto. Nonostante l’aumento delle manovre militari, non c’è stato un picco rispetto al 2021.
Angelica Oung si chiede se Lai stia abbandonando del tutto o meno l’approccio moderato di Tsai per tornare all’era dell’imprevedibilità di Chen Shui-bian, primo presidente del DPP tra il 2000 e il 2008.
Chip
“ASML e TSMC dispongono di metodi per disattivare le macchine per la produzione di chip più sofisticate al mondo nel caso di guerra”. Lo ha anticipato Bloomberg, lo ha confermato Wu Cheng-wen, il ministro taiwanese della Tecnologia. Il riferimento è ai macchinari più avanzati connessi a internet. Si tratta forse di una rassicurazione per l’esterno, ma per l’interno aggiunge forse preoccupazione visto che potrebbe aver appena tolto un elemento di deterrenza di fronte a un’azione militare.
TSMC intanto non ha nessuna intenzione di interrompere i rapporti con la Cina continentale e ha ottenuto dal governo statunitense una deroga permanente per le apparecchiature per semiconduttori fornite alla sua fabbrica di wafer di Nanchino.
Il caso Mayday
Di Lorenzo Lamperti
L’insediamento di Lai e l’analisi del suo discorso
Il bilancio dell’era Tsai, gli scenari dell’era Lai
Lo speciale sulle elezioni 2024
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.