Taiwan: Una lingua di mare separa l’ascesa di Pechino dalla credibilità di Washington. L’articolo fa parte dei contenuti selezionati (1° posto) come parte dell’essay competition organizzata da China Files in collaborazione con Hikma, associazione studentesca dell’Università di Bologna. Oltre alla pubblicazione del contenuto, i vincitori hanno ricevuto agevolazioni alla partecipazione della China Files School: edizione 2022
Un esercito di 2 milioni di effettivi, 252 miliardi di spesa militare nel 2020 (un’ incremento del 76% negli ultimi dieci anni), 380 invasioni della Zona di identificazione della difesa aerea taiwanese nel solo 2020, 56 incursioni di aerei nella sola giornata del 4 ottobre 2021, 36 al 24 gennaio 2022. Sono i numeri delle crescenti minacce militari della Repubblica Popolare Cinese alla sua nemesi al di là dello stretto, la Repubblica di Cina (Taiwan). Numeri da Davide contro Golia che l’anno scorso hanno spinto l’Economist a definire l’isola «The most dangerous place on earth». Tuttavia, seduta su una «montagna di microchip» e protetta dagli Stati Uniti, Taiwan, sotto la guida della sua carismatica leader Tsai Ing-wen, continua a prosperare, trasformando le minacce del crescente nazionalismo comunista in benzina per la propria indipendenza e rendendosi un asset imprescindibile per gli Stati Uniti e i suoi alleati.
L’Ilha formosa – così battezzata dai portoghesi nel 1544 – è uno snodo indispensabile per tutti gli stati che si affacciano sul Mare cinese orientale e meridionale: distante solo 143 km dalla Cina continentale a Ovest, 108 km dall’arcipelago giapponese delle Nansei a Est e 156 km dalle Filippine a Sud, è il perno del blocco marittimo americano che impedisce ai cinesi di proiettarsi liberamente nell’Oceano Pacifico. Perfettamente integrata nel mondo globalizzato – nelle sue acque territoriali transita infatti il 60% del volume delle merci mondiali commerciate via mare – Taiwan, attraverso una lungimirante politica di incentivi statali iniziata negli anni ottanta, è oggi il primo produttore al mondo di semiconduttori con il 65% della produzione globale, di cui il 55,3% in mano alla sola Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), le cui avanzatissime tecnologie e know-how la rendono oggetto del desiderio tanto per gli americani quanto per i cinesi.
L’attenzione internazionale intorno a Formosa è cresciuta in questi anni parallelamente alla competizione commerciale e militare tra Washington e Pechino. Sotto l’amministrazione Trump e ancora sotto l’attuale dirigenza Biden, gli Stati Uniti hanno rinforzato l’accerchiamento militare intorno alla Cina coinvolgendo l’India, l’Australia e il Giappone nell’alleanza militare del Quad e condividendo con Canberra le tecnologie militari necessarie alla produzione di sottomarini a propulsione nucleare. Pechino dal canto suo non nasconde i muscoli: ad ogni occasione non manca di ricordare che la propria forza militare non ha più niente da invidiare a quella dei suoi avversari. Se, infatti, solo vent’anni fa l’idea di un assalto anfibio a Taiwan da parte dell’Esercito popolare di liberazione era impensabile, oggi è tutt’altro che fantascienza. Dopo l’ultima crisi dello stretto nel 1996, quando le minacce del regime comunista alla Repubblica di Cina furono messe prontamente a tacere dalla presenza della settima flotta americana nel Pacifico, i leader cinesi e in particolare Xi hanno investito molto per colmare il loro gap militare e oggi le simulazioni di guerra volgono a loro favore.
A rendere la questione taiwanese ancora più infuocata concorrono anche profonde radici storiche e ideologiche. Il trattato Shimonoseki del 1895 concluse la prima guerra sino-giapponese e segnò l’apice di quello che i cinesi oggi chiamano il «secolo delle umiliazioni», una fase di declino e mortificanti sconfitte per l’impero di mezzo, che iniziò con la prima guerra dell’oppio nel 1842 e si concluse solo con l’avvento dei comunisti al potere nel 1949. La Cina all’epoca fu costretta a cedere all’impero giapponese il controllo sull’isola di Formosa. Taiwan divenne così la colonia prediletta del Giappone imperiale fino a quando cinquant’anni dopo non fu restituita ai cinesi a seguito della seconda guerra mondiale. Quando, però, l’esito della guerra civile cinese volse a favore dei comunisti di Mao, il generalissimo Chiang Kai-shek, leader del partito nazionalista (il Kuomingtang), riparò sull’isola insieme ad un milione e mezzo di connazionali in fuga. Nacquero allora le due Cine: quella comunista sul continente, la Repubblica popolare cinese sostenuta dai sovietici, e quella nazionalista a Taiwan, la Repubblica di Cina sostenuta dagli americani. Il governo dell’isola godette così del riconoscimento internazionale e di un seggio nel consiglio di sicurezza dell’Onu, fino a quando negli anni settanta gli americani, desiderosi di portare dalla loro parte i cinesi in funzione anti-sovietica, si aprirono al dialogo con il PCC. Così nel 1979 l’amministrazione Carter chiuse le relazioni diplomatiche ufficiali con Taipei in favore di quelle con Pechino. Un capolavoro diplomatico che però relega tutt’ora i taiwanesi in un limbo: da un lato lato il regime comunista che li ritiene ribelli e impone al mondo l’idea che esiste un’unica Cina (la così detta One-China policy); dall’altro l’«ambiguità strategica» americana che, ufficiosamente attraverso il Taiwan relations act da quaranta anni assicura aiuti e sostegno militare a Taipei, garantendone l’indipendenza de facto.
Con l’avvento al potere di Xi nel 2012 la temperatura nello stretto di Formosa non ha fatto che alzarsi. Questo perché l’attuale presidente della Rpc da quando è salito al potere ha promesso ai cinesi un futuro di prosperità e potenza (fuqiang), l’idea cioè di una rinascita nazionale che comprende non solo la garanzia di una sempre maggiore qualità della vita, ma anche di riprendere il controllo su Hong Kong, Macao e Taiwan, il tutto entro il 2049, l’anno del centenario della fondazione della Repubblica popolare. Per poter garantire il successo del suo «sogno cinese» Xi si è già liberato del vincolo dei due mandati presidenziali e quest’autunno al XX congresso del partito quasi certamente si assicurerà il terzo. I tempi comunque stringono perché, data l’età del segretario del PCC, difficilmente potrà restare leader indiscusso per più di altri due mandati quinquennali; in più governando così a lungo ed in maniera così autoritaria corre incontro a possibili ritorsioni: la migliore assicurazione per un’uscita di scena tranquilla sarebbe per lui ottenere l’annessione di Taiwan. Inoltre, gli analisti sottolineano come l’economia cinese cominci a dare i primi segni di insofferenza dopo decenni di crescita impetuosa, non solo per il recente scoppio della bolla immobiliare e per le draconiane misure di prevenzione alla diffusione del Covid, ma in generale:
«China’s economy, the engine of the CCP’s international clout, is starting to sputter. From 2007 to 2019, growth rates fell by more than half, productivity declined by more than 10 percent, and overall debt surged eightfold. The coronavirus pandemic has dragged down growth even further and plunged Beijing’s finances deeper into the red. On top of all this, China’s population is aging at a devastating pace: From 2020 to 2035 alone, it will lose 70 million working-age adults and gain 130 million senior citizens».
Più il tempo passa, aumentando i rischi di instabilità interna, più il governo di Pechino agisce in maniera muscolare e autoritaria, tanto all’interno quanto all’esterno. Questa strategia si sta però rivelando un arma a doppio taglio: i cittadini taiwanesi infatti, arroccati dall’altra parte dello stretto, vedono la crescente minaccia autoritaria alle loro porte e prendono il largo.
I dati emersi nel 2021 dall’annuale sondaggio della National Chengchi University, che ogni anno dal 1992 misura le tendenze politiche dei cittadini taiwanesi, parla chiaro: il 63% degli intervistati si identifica come taiwanese, una percentuale che è triplicata rispetto al 1992 a discapito di coloro che nello stesso anno si identificavano solo come cinesi, che dal 25,5% di allora oggi è drammaticamente sceso al 2,7%. Questo sentimento identitario cresce di pari passo alla parte di popolazione che desidera o mantenere lo status quo o addirittura dichiarare l’indipendenza de iure, quest’ultima opzione particolarmente gradita ai più giovani. Dopo aver visto la violenza con cui la Cina ha represso le proteste di Hong Kong nel 2019, il modello cinese del «un paese, due sistemi» ha perso definitivamente il proprio fascino e l’eco del motto degli attivisti «Hong Kong today, Taiwan tomorrow» ha spinto i giovani a votare in massa per la rilettura nel gennaio 2020 della leader del PPT Tsai Ing-wen. Leader progressista e paladina della autonomia dell’isola, Tsai è riuscita negli anni a fare di Taiwan un avamposto di libertà e dei diritti civili in Asia orientale, unico paese della regione, per esempio, ad aver legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso. L’idea dunque di un riavvicinamento pacifico tra le due Cine è per la leadership comunista sempre più un miraggio, mentre l’opzione militare, anche se sempre più paventata, rimane un grosso azzardo, che anche se dovesse avere successo esporrebbe il regime non solo ad uno scontro frontale con gli Usa e loro alleati, ma a dover reprimere in maniera coercitiva 24 milioni di taiwanesi che si andrebbero ad aggiungere alla lista dei possibili focolai interni di instabilità, assieme ad Hong Kong, Tibet e Xinjiang.
Di Francesco Gianotti