Taijiquan. Una perla dalla Cina

In by Gabriele Battaglia

Sono sempre di più gli italiani che si dedicano al tai-chi, o meglio taijiquan. Ma Piero Cellarosi, autore di Taijiquan: appunti di un praticante laowai nota che sono molti quelli che non si sono mai poste le domande a cui tenta di rispondere nel suo libro. L’intervista di China Files. Incontro Piero per la prima volta a marzo di quest’anno nella zona di Tuanjiehu, a Pechino, a pochi minuti di strada da Sanlitun, una delle zone di Pechino più frequentate dagli stranieri – laowai, in cinese.

Abita in Cina da quasi 8 anni, durante i quali ha approfondito la conoscenza della lingua e della cultura cinese. Ma soprattutto una parte specifica di questa. Quella che un tempo era un’arte marziale e adesso con la globalizzazione quasi un passatempo, soprattutto in Occidente, dal sapore esotico: il taijiquan.

"Mi alleno qua vicino, nel parco", mi racconta. Qualche mese dopo, ci ritroviamo in occasione della presentazione del suo libro all’ Istituto italiano di cultura di Pechino. Si parla di una tradizione millenaria che non solo è movimento fisico, ma vera e propria filosofia di vita, e lo si fa sul serio. Dietro agli "Appunti" c’è una ricerca lunga 3 anni tesa a ripercorrere le radici del taijiquan, e attraverso l’incessante studio dei testi cinesi,  tracciarne un’evoluzione storica. 

Un punto di vista, il suo, senza pretese di infallibilità. Chi cerca un manuale di taijiquan sbaglia. "Il mio libro va letto più come una serie di consigli di un compagno di corso più esperto," ripete l’autore. "Io non sono un maestro."

Come definiresti il Taijiquan ? 

Dare una definizione esaustiva del taijiquan, che sia condivisa da tutti i praticanti, è un impresa alquanto ardua.

Per me, il taijiquan è un’arte, è una “via”, sintesi del pensiero e della cultura tradizionale cinese, dove gli aspetti marziali,filosofici e la consapevolezza del corpo – eredità delle pratiche psico-corporee – si fondono dando vita ad una filosofia in movimento. In quest’ottica, il corpo in movimento diventa espressione di una cultura, diventa principio filosofico in azione.

Poco importa se ci si allena semplicemente per star meglio, per imparare a combattere o per “coltivare sé stessi”. Quello che veramente sviluppa il taijiquan, a mio avviso, è una consapevolezza di sé stessi – corporea e mentale – che prescinde dall’ambito di applicazione o dal fine specifico per cui lo si studia.

Praticando taijiquan si assorbe gradualmente la capacità di mantenere sempre un corretto bilanciamento, si realizza in altre parole quell’ideale di “centralità” – nel senso di sapersi adattare sempre alle circostanze, senza eccedere o essere in difetto – che per secoli ha dominato la speculazione filosofica cinese.

Chi pratica il taijiquan oggi? 

Non credo ne esista un praticante tipo. In Cina, a livello popolare, sono per lo più anziani – spesso donne – che lo praticano nei parchi, nei piazzali o nei giardinetti dei propri compound per mantenersi in forma.

Questo in particolare nelle città. Vi sono poi quelli che fanno un percorso diverso e che ne studiano la versione standardizzata con maestri ufficialmente riconosciuti dalla federazione cinese di wushu.

In linea di massima è possibile affermare che il taijiquan – al pari di altri stili di wushu – non gode di un grosso seguito tra le nuove generazioni, per lo più interessate a tutto ciò che risulta essere, ai loro occhi, “esotico”.

E’ ancora possibile dare ai diversi stili del taijiquan una connotazione marziale?

Alcuni stili del taijiquan enfatizzano maggiormente la marzialità – in particolare lo stile Chen -, altri, almeno apparentemente, sembrano aver perso la loro connotazione marziale. Ciononostante, penso che una delle peculiarità del taijiquan sia quella di sviluppare, in generale, delle potenzialità fisiche e mentali che sono dei requisiti fondamentali per ogni combattente. Ma non ci si deve illudere di essere un combattente solo perché si fa taijiquan.

E’ mia convinzione che per imparare a combattere, bisogna combattere, non c’è altro modo. Questo discorso andrebbe però esteso, probabilmente, a tutte le arti marziali.

A tal proposito è forse doveroso chiarire quello che personalmente ritengo essere un malinteso. Il fine dell’addestramento militare è quello di preparare dei soldati ad andare in guerra; nella Cina antica, prima della diffusione delle armi da fuoco, ai soldati venivano insegnate delle tecniche – per lo più con armi bianche come spade e lance – funzionali a tale scopo.

A queste, da quanto riportano alcuni trattati militari antichi, si univa la pratica di tecniche a mani nude – quella assorbita dalle pratiche marziali popolari – atte soprattutto ad allenare fisicamente i soldati.

Le pratiche marziali sono invece state sviluppate (come minimo a partire dall’epoca della dinastia Song) per lo più in ambito urbano tra le classi più abbienti – per poi diffondersi successivamente anche nelle campagne – ed erano finalizzate alla difesa personale o a quella dei villaggi, alla cura del corpo ma anche al semplice intrattenimento.

Si può parlare di “arte marziale” in senso stretto solo quando si fa riferimento ad una “via marziale”, wudao, che si differenzia dalle precedenti poiché, fondendo alle tecniche aspetti di natura filosofica, ha di fatto idealizzato il combattimento, elevando la pratica marziale a disciplina per la “coltivazione morale”, spesso a discapito della sua efficacia puramente marziale. A queste si aggiunge, poi, la versione moderna sportiva delle arti marziali, all’interno della quale si è verificata una specializzazione tra allenamento del combattimento e delle forme a fini agonistici.

Che significato ha il taijiquan per i cinesi? Come viene visto il
laowai che vi si avvicina? 

Mi limito a citare una definizione di un maestro dello stile Yang, Zhang Yijing: Il taijiquan è una perla della cultura cinese”.

Un laowai che pratica taijiquan suscita sicuramente un notevole interesse e curiosità. Di certo è motivo di orgoglio per un maestro avere uno straniero tra i propri allievi; e si percepisce una sincera ammirazione – sia da parte del maestro, sia da parte dei compagni di allenamento -per chi viene da così lontano e dimostra tanta passione per una disciplina che culturalmente non gli appartiene.

D’altro canto ho notato anche un certo scetticismo – spesso anche motivato – verso il laowai praticante, nel senso che c’è la tendenza a ritenere che uno straniero possa arrivare a comprendere solo fino ad un certo punto e che la vera maestria, alla fine, sia appannaggio dei soli cinesi.

Per quanto riguarda invece come il laowai praticante sia visto dal cinese non praticante, si ha spesso la sensazione di essere per loro un animale strano, che li incuriosisce a tal punto da non poter resistere alla tentazione di farti domande mentre ti stai allenando o addirittura scattarti delle foto. Così come capita di diventare oggetto di scherno del gruppetto di ragazzi di turno o, ancora peggio, finire tra le grinfie del “maestro” che, pur non avendo mai praticato taijiquan, vuole insegnarti a tutti i costi cosa devi fare. Il tutto ovviamente a discapito dell’allenamento…

Che rapporto ha il taijiquan con la storia cinese?
 

Nel corso delle mie ricerche ho cercato di adottare un approccio olistico, finalizzato a determinare quale sia la posizione del taijiquan all’interno del processo di evoluzione delle arti marziali cinesi e a stabilire, da un punto di vista teorico, quale fosse l’ambiente da cui ha avuto origine e quale la tradizione filosofica di riferimento.

Alla fine sono riuscito a dimostrare la forte influenza della speculazione neo-confuciana su quello che è il sistema teorico del taijiquan.

Attualmente sto proseguendo le mie ricerche, approfondendo in particolare il legame tra eventi storici verificatisi alla fine della dinastia Qing, le informazioni biografiche di quei maestri di taijiquan, vissuti in questo periodo, che maggiormente hanno contribuito a sviluppare il sistema teorico, le aree di maggiore diffusione del neo-confucianesimo nel corso del XIX secolo e l’evoluzione del pensiero neo-confuciano all’interno degli ambienti militari.

Incrociando le varie informazioni ricavate sta emergendo un quadro decisamente interessante da cui sarà forse possibile fare maggiore chiarezza su quelle che sono le origini di questa disciplina. I lettori dovranno però aspettare il mio prossimo libro – sempre che sia mai pubblicato – per poter leggere i risultati di queste ultime ricerche.

In che modo il Tjq è stato ed è trasmesso in Occidente?

Personalmente ho approfondito poco il processo di trasmissione del taijiquan dalla Cina in Occidente. Quello che ho notato, però, è che esiste molta confusione intorno a questa disciplina, probabilmente dovuta ad una scarsa conoscenza della cultura e della storia cinese da parte di chi pratica; confusione che è stata spesso alimentata anche dagli stessi maestri – o presunti tali – cinesi che ne hanno favorito la diffusione all’estero.

Il risultato è che si è affermata, a mio avviso, un’idea alquanto stereotipata di questa disciplina che, soprattutto per quel che concerne gli aspetti teorico-filosofici, troppo spesso si distacca da quelli che ne erano i contenuti originali – o li ignora completamente.

Negli ultimi anni ho notato, inoltre, un rinnovato interesse a promuovere il “prodotto” taijiquan, sia perché si cerca di monetizzare il fascino che una disciplina orientale come questa suscita sul pubblico occidentale, sia perché probabilmente vi è l’intenzione di utilizzarla come strumento per promuovere una certa immagine della Cina all’estero – un po’ come succede con i panda, per intenderci – amplificando quello che è il soft power del Paese.

Che rapporto hai con chi pratica il taijiquan fuori dalla Cina? E, di conseguenza, che scopo ha il tuo libro?

Dopo aver pubblicato il mio libro ho iniziato a frequentare alcuni forum online per cercare di capire quanto interesse potesse suscitare tra chi pratica taijiquan in Italia. Con alcuni di loro ho avuto modo anche di confrontarmi sui contenuti del libro e alla fine – a parte le critiche -posso dire che è stato abbastanza apprezzato.

In generale, ho avuto però l’impressione che non ci siano la dovuta apertura mentale e la volontà di mettere in discussione quanto si sa o si crede di sapere sul taijiquan. Da una parte è comprensibile dato che l’interlocutore è un ragazzo trentenne che per sua stessa ammissione non è un maestro.

Così come è anche comprensibile che chi insegna per professione debba in un certo senso tutelare la sua posizione. Però la cosa che mi ha maggiormente colpito è che la quasi totalità dei praticanti – più o meno esperti – con cui ho avuto modo di scambiare idee non si fosse nemmeno mai posto le miriadi di domande che invece sono alla base di questo mio libro. Ed è forse questo uno degli obiettivi di questo mio lavoro, ossia stimolare il lettore italiano, aiutandolo a farsi delle domande diverse da quelle che è solito porsi.

Leggi un estratto dal libro Taijiquan: appunti di un praticante laowai

[foto credits: acuherb.us]