La popolarità delle arti marziali tradizionali asiatiche nel mondo è oggi tanto uno strumento di soft power quanto una base narrativa utile a rafforzare l’identità nazionale. Un estratto dall’ultimo e-book di China Files su Sport e Politica (per sapere come ottenerlo, clicca qui)
Seul, 2017. Il team nordcoreano di taekwondo si esibisce davanti a una folla di appassionati e funzionari del governo. Si tratta del primo evento di questo genere dal 1953, quando i due governi firmarono un armistizio che non ha tuttora messo la parola “fine” al conflitto. Per molti quel giorno al Kukkiwon, il quartier generale dello sport nazionale, è stato il momento della “ping pong diplomacy” alla coreana. Così come la riapertura delle relazioni tra Stati Uniti e Cina nel 1971 si è giocata con tavolino e palette, ora un tatami sembrava riconciliare due identità che negli ultimi sessant’anni si erano drasticamente allontanate.
Non è un caso che a fare da collante ai tentativi di riavvicinamento della Corea del Sud sia stata una delle sue più note forme di combattimento. La popolarità delle arti marziali tradizionali asiatiche nel mondo è oggi tanto uno strumento di soft power quanto una base narrativa utile a rafforzare l’identità nazionale. Il Novecento ha rappresentato un momento chiave per la rinascita delle arti marziali, a cavallo tra tradizione e modernità. Non è nemmeno un caso che sempre la guerra nel Pacifico abbia fatto da volano per la diffusione globale di queste pratiche: a portarle negli States, e poi nel mondo, sono spesso stati gli stessi soldati che venivano stanziati in Giappone e Corea del Sud alla fine della Seconda guerra mondiale.
La globalizzazione ha poi fatto il resto. A partire dagli anni Cinquanta le arti marziali asiatiche hanno iniziato a diffondersi nel mondo, affascinando tanto chi cercava un rifugio dalla scoietà moderna quanto i giovani emulatori di Bruce Lee. Oggi sono milioni i centri e le associazioni sportive che propongono una qualche forma di arte marziale asiatica, che sia essa una forma più codificata e tradizionale oppure una sua versione “riadattata” alla domanda dei mercati occidentali. Alcune di queste discipline hanno fatto capolino alle Olimpiadi, mentre altre rischiano di scomparire o vengono relegate a forme performative utili alla promozione turistica. Per alcuni governi sono imprescindibili forme di soft power, per altri una prova dell’unicità della propria identità culturale.
In cima alla classifica dei paesi che hanno dato i natali alle arti marziali più diffuse al mondo è senz’altro il Giappone. Patria del karate, dell’aikido, del judo. Già sulla prima ci sarebbero da fare delle precisazioni: il karate nasce nell’arcipelago meridionale di Okinawa. Prefettura che condivide peraltro parte della sua matrice culturale con la Cina. Qui uno dei punti cruciali delle discipline coinvolte: la loro popolarità e la loro identificazione con un’identità nazionale che pure può essere, alle volte, rivendicata in un quadro narrativo più ampio.
A dare slancio globale al karate c’entrano ancora una volta gli States. Robert Trias, ex campione di pugilato e ufficiale della Marina Usa, è uno dei tanti veterani che hanno contribuito a diffondere questa disciplina fondando la prima associazione con sede in America e istituendo il primo campionato mondiale nel 1963. Un destino simile ha segnato l’ascesa del taekwondo negli anni della guerra in Vietnam. In questo caso, lo stesso governo sudcoreano inviò dei maestri per addestrare i soldati alleati al combattimento corpo a corpo. Tra i volti noti di quest’epoca anche l’icona del cinema Chuck Norris, che fu introdotto al Taekwondo durante il servizio militare nella base di Osan, in Corea del Sud. Nel frattempo, le arti marziali iniziavano a fare il loro ingresso a Hollywood, dando vita a un immaginario che avrebbe contribuito all’ascesa globale delle arti marziali asiatiche.
Le ondate migratorie negli Stati Uniti sono state, a loro volta, un mezzo che ha permesso alle arti marziali di raggiungere altri pubblici. Un esempio è quello Jhoon Rhee, il “Padre del taekwondo americano” che negli anni Sessanta poteva vantare, tra i suoi allievi, anche alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti. Molti i maestri di arti marziali che, tentando la fortuna nel “nuovo mondo”, hanno potuto godere di un successo inaspettato. Poi è arrivato Bruce Lee.
[L’articolo continua all’interno dell’e-book “Sport e Politica”]
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.