Che l’economia cinese fosse in rallentamento era cosa nota, ma in parte non lo si è voluto vedere. Giovanni Tamburi, presidente e amministratore delegato di Tamburi Investment Partners, non sembra sorpreso della mossa con cui mercoledì la People’s Bank of China ha deciso di deprezzare lo yuan (o renminbi) con un’operazione letta da molti come una svalutazione competitiva. Per il banchiere d’affari tempi e ragioni della manovra sono abbastanza chiari. «L’economia della Cina decelera da anni. Su volumi sempre più elevati. Sono passati da una crescita del 14% al 12% e a calare verso l’ 11%, il 10%, fino al 7%. Ma le percentuali fanno più notizia dei valori assoluti», spiega, « Le previsioni per quest’anno indicano un 4-5% di crescita. Le autorità hanno quindi tentato di dare una spinta tramite il cambio, ossia con un metodo tradizionale. D’altra parte la misura non è una sorpresa. Già lo scorso aprile gli analisti di JP Morgan avevano ipotizzato un’operazione di questo tipo.
L’intervento della Banca centrale sembra tuttavia in contraddizione con la politica di trasformazione dell’economia intrapresa dalla dirigenza cinese. Da almeno due anni i leader cinesi enfatizzano lo sviluppo dei consumi interni rispetto al peso delle esportazioni sulla crescita. C’è forse un ripensamento di questa strategia?
Non si tratta di interventi contradditori. Sono state prese misure per il mercato interno e ora si agisce per sostenere le importazioni. C’è un altro fattore che spesso non è considerato con il giusto peso. Negli ultimi anni in Cina sono aumentati sia il costo del lavoro sia il numero degli scioperi. Per le imprese si tratta di condizioni e costi che devono essere gestiti. E un sostegno monetario può servire.
Quanto ha influito la possibile inclusione del renminbi tra i diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale? L a scorsa settimana i tecnici dell’Fmi avevano esortato alla prudenza, mentre mercoledì la manovra della People’s Bank of China è stata accolta in modo positivo dall’organizzazione multilaterale. Pechino ha azzeccato la mossa?
Faccio parte di quanti sono convinti che lo yuan diventerà una valuta perfettamente libera e sarà fatto fluttuare. Il Fondo monetario ha accolto con sorpresa l’iniziativa. La manovra della banca centrale cinese è però fisiologica. Occorre inoltre tenere presente che la Cina ha conosciuto negli ultimi tempi un deflusso di capitali. Un po’ per le acquisizioni, un po’ per i cinesi che vanno a comprare all’estero e altre ragioni, dalla Cina sono usciti molti soldi. Tra il 2014 e il 2015 il deflusso è stato piuttosto vivace e anche questo è un fatto che spesso non è sottolineato con il dovuto peso quando si parla di Cina, ma che il quale le autorità devono fare i conti.
Quale sarà l’impatto del deprezzamento dello yuan sulle economie europee?
Le conseguenze non saranno drammatiche. L’Europa in realtà non esporta molto verso la Repubblica popolare. I timori sul settore dell’automobili e sul lusso sono eccessivi. Le classi affluenti cinesi non si faranno fermare da un aumento del 4 o del 5%.
L’ultimo anno e mezzo è stato contraddistinto dall’attivismo cinese sul versante degli investimenti in Italia. Ci potranno essere conseguenze?
Gli investimenti cinesi continueranno ad aumentare. È fisiologico per chi da molti ha studiato la realtà e le società italiane. Si pensi ad esempio al caso Pirelli. L’Italia rappresenta un Paese importante nello scacchiere internazionale e non è pensabile che chi intende diversificare il proprio portafoglio ne resti fuori.
Gli investimenti italiani in Cina invece, subiranno contraccolpi?
Gli investimenti italiani hanno già rallentato. Vuoi per l’aumento del costo del lavoro, vuoi per l’entusiasmo che si è affievolito. Molte aziende che sono andate in Cina soltanto per il costo del lavoro hanno scoperto che si tratta di un Paese complicato. Gli investimenti si potrebbero stabilizzare. Vanno però fatti pensando al mercato locale. In DeLonghi si è passati dalla produzione in Cina per i mercati esteri a una produzione destinata al mercato cinese. Lo stesso ha fatto Prysmian. Chi segue questa direzione resisterà, gli altri si sposteranno o si sono già spostati in altri Paesi.
Ritiene che le autorità cinesi saranno in grado di gestire la situazione di rallentamento dell’economia?
Mantengono un controllo molto stretto. Il vero tema su cui occorre stare attenti è la competitività del lavoro. L’ondata di lavoratori che si spostavano dalle campagne alle fabbriche delle aree costiere è diminuita. Il lavoratore cinese ha capito la propria forza contrattuale. Sul resto non ho dubbi. Il rallentamento dell’economia è se si vuole anche giusto. Spesso c’è stato uno sviluppo non finalizzato. Si pensi al mercato immobiliare con la costruzione di palazzi e palazzi rimasti vuoti.
Quali conclusioni si possono trarre?
Dopo aver assistito a un rallentamento negli Stati Uniti e in Europa ora assistiamo alla frenata cinese. Dobbiamo abituarci a un’economia che non farà più il grande rimbalzo. Anche le singole aziende dovranno diventare più brave a valutare pregi e difetti di un Paese. Chi sarà più bravo riuscirà a farsi valere.
Più in generale. La decisione della People’s Bank of China influirà sulla decisione della Federal Reserve sulla tempistica del rialzo dei tassi statunitensi?
La Fed attenderà il più possibile, perché anche loro hanno rallentato. Gli ordini dagli Usa sono meno vivaci rispetto a sei mesi fa. È possibile che per coerenza con sé stessi facciano qualche intervento marginale. Più che altro Janet Yellen e i colleghi non vogliono spaventare i mercati. Potrebbero intervenire a fine ottobre e non a settembre. Ma dovrebbe essere un intervento “delicato”, in modo da non interferire con i mercati e fare in modo che rimangano tonici e positivi.