Il Vertice dell’Apec che si è svolto a Pechino nei giorni scorsi ha rappresentato anche l’occasione per riaprire il capitolo sul cambiamento climatico, da tempo in stallo. E con un Xi Jinping che la vulgata vuole controllare ansioso i dati relativi all’inquinamento dell’aria nella capitale sul suo smartphone (esclusivamente da fonte cinese, giacché il resto è stato prontamente censurato), e un Obama, reduce dalle elezioni di midterm, che mantiene un inusitato low profile, si è arrivati a un risultato.
Cina e Stati Uniti, responsabili insieme di quasi la metà delle emissioni globali di Co2 nell’atmosfera, hanno raggiunto un accordo che il premier americano non ha esitato a definire «storico» Sul palcoscenico della Grande Sala del Popolo, Obama ha annunciato che gli Usa si impegnano a ridurre le emissioni del 26-28% entro il 2025, rispetto ai livelli del 2005. La Cina da parte sua non ha quantificato il proprio impegno, ma ha risposto accettando di raggiungere il tetto massimo delle emissioni entro il 2030, per poi diminuirle. L’annuncio ha provocato reazioni contrastanti nei rispettivi paesi; i repubblicani si sono scagliati contro Obama dichiarando gli obiettivi «irrealistici» e lanciando il monito su una serie di catastrofiche conseguenze che l’accordo provocherà sull’economia americana. Fronte compatto invece a favore di Xi.
Detto questo è però innegabile che l’accordo di ieri sia incompleto, perché manca di impegni quantitativi chiari da parte cinese. Impegni che potrebbero venire decisi a Parigi, dove si terrà il prossimo Cop21 la Conferenza sul clima, nel dicembre 2015. L’accordo di ieri non è certo un colpo di scena, ma il risultato del lavoro della «diplomazia del clima» che lo prepara da mesi. Già lo scorso settembre alla dichiarazione di Obama sul tetto alle emissioni, era seguita un’affrettata replica cinese che, seppur non chiarendo i termini dell’impegno, prometteva di allinearsi alla posizione americana. E così in effetti è stato.
Oltre al tema del tetto alle emissioni, si è parlato di strategie alternative perché sia Cina sia Usa devono continuare a garantire un livello di crescita costante e benzina alle proprie economie. Da Pechino giunge quindi conferma dell’impegno a investire in fonti energetiche alternative, da tempo parte integrante della strategia di lungo termine. Cambiano i target però, precedentemente fissati nell’11,4% di consumi di energia primaria soddisfatti da risorse non fossili; entro il 2015, sono stati aumentati a una percentuale del 20%, da raggiungersi entro il 2030. Deciso impegno sulle rinnovabili anche da parte americana.
Il timing è quello giusto, l’accordo infatti arriva a una decina di giorni dall’ultimo monito delle Nazioni Unite che riassume il lavoro svolto dalla Conferenza intergovernativa sui cambiamenti climatici, nell’ultimo anno e che definisce «severe, pervasive e irreversibili» le conseguenze per l’umanità e per l’ecosistema, di un mancato accordo sul calo delle emissioni.
Mettendo da parte i risvolti pratici degli accordi, l’annuncio dei due leader a detta di molti osservatori, assume una rilevanza più politica che sostanziale. La linea di Pechino è infatti sempre stata incentrata su una strategia del doppio binario: mentre il governo moltiplicava gli sforzi per contenere e controllare le emissioni di anidride carbonica nel paese, lo stesso governo concentrava i suoi sforzi diplomatici nel tentativo di rendere i regimi internazionali in materia compatibili con i propri interessi nazionali. Il passo di oggi rompe la logica del doppio binario, aprendo una nuova prospettiva.
Si abbandona la politica prudente del «non lo faccio se non lo fai anche tu» e si imbraccia quella più conciliante del «noi ci siamo, se ci sei anche tu», come ha con efficacia sintetizzato Roger Harrabin, analista ambientale della Bbc. Non è solo questione di sfumature, si intravede una reale percezione dell’impossibilità di procedere di questo passo, speriamo foriera di reali passi in avanti. Dal punto di vista economico poi il messaggio ai mercati finanziati è chiaro, la green economy è il futuro. Il mondo delle organizzazioni ambientaliste ha salutato con freddezza l’accordo, tenendo a sottolineare che il tetto sulle emissioni non può certo essere letto come un punto d’arrivo per la lotta ai cambiamenti climatici. Siamo solo all’inizio, molto c’è ancora da fare. Che almeno – intanto – si inizi.
*Nicoletta Ferro si è occupata delle dinamiche politiche e aziendali legate alla sostenibilità, prima come senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei a Milano, in seguito per 7 anni da Shanghai. Oggi è ricercatrice presso il CRIOS (Center for Research in Innovation, Organization and Strategy) dell’Università Bocconi e responsabile dello sviluppo asiatico di GOLDEN (Global Organizational Learning and Development Network) for sustainability, un network di ricerca globale sui temi della sostenibilità.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.