L’ultimo esemplare femmina di Rafetus swinhoei (conosciuta come tartaruga dal guscio molle gigante dello Yangtze), è infatti morto sabato scorso allo zoo di Suzhou, nel sud del paese. L’animale, è deceduto dopo un tentativo (l’ennesimo) di inseminazione da parte dal team internazionale di esperti. La perdita è stata definita “catastrofica” e un’indagine sulle cause della morte dell’animale è stata aperta. Oggi rimangono al mondo solo tre esemplari di questa specie, un maschio in Cina e due in Vietnam, di cui non si conosce il sesso con certezza.
Se la biodiversità, sia animale sia vegetale, a livello globale è in pericolo e gli esperti avvertono che i due terzi degli animali selvatici rischiano di estinguersi entro il 2020, la situazione in Cina presenta caratteristiche uniche. La Cina infatti è uno dei paesi più ricchi di biodiversità al mondo. Secondo il WWF “entro i suoi confini si trova circa il 10 per cento di tutte le specie vegetali conosciute e il 14 per cento di quelle animali”. Oltre al panda gigante, la Cina ospita molte altre specie endemiche, cioè presenti in natura solo nel paese.
Sviluppo economico accelerato e sregolato, massiva industrializzazione, mancanza di regole condivise, questi solo alcuni dei fenomeni che mettono in pericolo il 15- 20% delle varietà vegetali e 40,000 specie di organismi da cui dipendono. Simbolo del binomio sviluppo/distruzione, il recente caso del delfino bianco, specie diffusa nell’estuario del fiume delle Perle e già decimata dall’inquinamento marino e dal forte traffico di imbarcazioni che varcano le acque della zona. Quando Pechino presentava al mondo la regina delle infrastrutture, il mega ponte che unisce Hong Kong-Zhuhai-Macao, gli ambientalisti denunciavano il pericolo estinzione per la specie a causa proprio della costruzione del ponte.
Che sia arrivata ora di correre ai ripari, Pechino lo sa bene. E questa consapevolezza è a buon vedere perfettamente in linea sia con il richiamo alla convivenza armoniosa con la natura, bandiera dell’ambientalismo del presidente Xi Jinping, sia con un rapporto del paese con la propria biodiversità che è da sempre anche politico, se si pensa alla cura riservata ai panda, ad esempio. Aderendo agli Aichi Target – i 20 obiettivi che animano il Piano strategico per la biodiversità elaborato, stabilito dalla decima Conferenza delle Parti della Convenzione nel 2011 e che scadrà nel 2020, la Cina ha abbracciato l’interventismo in materia di biodiversità.
Il paese ha iniziato a svolgere un ruolo più incisivo nei maggior framework globali che puntano la preservazione della biodiversità. All’interno Pechino ha riformato la governance della biodiversità che ha giovato del rimescolamento degli organi preposti, raggruppando la gestione delle aree protette sotto un unico Ministero e implementando la politica delle linee rosse ecologiche, limiti allo sviluppo sfrenato e laboratori per la protezione e il ripristino della biodiversità.
Nel corso dell’ultima conferenza delle Nazioni Unite sulla Biodiversità tenutasi in Egitto, la Cina ha chiesto a gran voce un maggior intervento della comunità scientifica nell’elaborare soluzioni adeguate. E proprio il paese ospiterà il prossimo simposio sulla biodiversità che si terrà a Kunming nel 2020. Si tratta di un evento chiave, in cui si dovrà stabilire una nuova road map con target e tempistiche visto i limiti mostrati dai paesi aderenti la Convenzione nell’ottemperare agli Achi targets (solo uno, quello relativo alle aree protette è stato infatti raggiunto).
Così come per il cambiamento climatico anche per la biodiversità siamo giunti all’ultima chiamata. Il ruolo della Cina é anche in questo caso divenuto fondamentale, dopo l’uscita del Brasile che tanto si era speso per stabilire i target e con un’America che latita sulle questioni ambientali. Chiaro il messaggio di Cristiana Paşca Palmer a capo della Convenzione sulla biodiversità delle Nazioni Unite: “Diciamo alla Cina che l’agenda della biodiversità ha bisogno di una leadership” e aggiunge “Pechino è stata fondamentale per il successo dell’Accordo di Parigi (sul clima) e lo è anche in questo contesto”.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.