All’origine della protesta, una serie di scosse sismiche di magnitudo 4.3 e 4.9, che tra domenica e lunedì scorsi hanno colpito la contea, ferendo 12 persone, e uccidendone due. Dall’inizio di gennaio si tratterebbe dell’ennesimo episodio sismico che colpisce la zona, già teatro del tragico sisma che nel maggio del 2008 fece quasi 70000 vittime. Con il terremoto non si scherza da quelle parti. Ma se la popolazione ha fino ad ora portato pazienza, la presenza di due vittime, ha scatenato la reazione degli abitanti. Su Weibo circolano video di una folla che si accalca davanti agli uffici governativi locali, altre immagini documentano i danni subiti e altre ancora il terrore di alcuni piccoli scolari nascosti sotto i banchi di scuola per proteggersi dai detriti.
L’autorità sui terremoti del Sichuan si è affrettata a dichiarare che non vi sarebbe alcuna connessione tra i terremoti e le operazioni di estrazione di gas di scisto che si concentrano nella zona, attribuendoli a una normale attività sismica tipica di quella parte di mondo. I manifestanti sono di ben altra opinione. “I terremoti seguono di solito di due/tre ore l’avvio delle operazioni di fracking “ ha affermato uno dei partecipanti alla manifestazione. La correlazione tra la fratturazione idraulica o fracking, metodo utilizzato per estrarre gli idrocarburi dalle rocce in profondità, è confermata da Wang Xinzhi, docente alla Southwest Petroleum University di Chengdu. “L’attività di fracking impone un forte stress sulle faglie esistenti nella zona, provocando continui eventi sismici minori” ha perà anche aggiunto “questa continuità nei sismi, potrebbe però anche scongiurare eventi di grande portata, come quelli che siamo abituati a vedere in quelle zone”, magra consolazione, comunque.
Parte integrante del processo di conversione energetica cinese, volta a diversificare il mix energetico nazionale, liberandosi da pesanti dipendenze geopolitiche e dalle fonti inquinanti come il carbone, lo shale gas, appariva come una buona soluzione concretizzatasi proprio in contemporanea con l’ascesa al potere di Xi Jinping. A sancire l’avvio alla corsa al gas di scisto nel 2013, il dipartimento Americano per l’energia secondo il quale “la Cina siede sulle più grandi riserve mondiali di shale gas, almeno il doppio di quelle americane, e abbastanza per sopperire al fabbisogno energetico del paese per un secolo”. Presto fatto, da lì ha avuto inizio la corsa allo shale con proiezioni di crescita mirabolanti come quelle enunciate dallo “Shale Gas Development Plan (2016-2020)” emanato dalla National Energy Administration, che puntava a raggiungere la soglia dei 30 miliardi di metri cubi di shale gas prodotti per il 2020. I maggiori giacimenti sono stati individuati in tre aree della Cina: oltre al Sichuan, nella zona del Tarim, il più grande bacino endoreico del mondo (in pratica un fiume che non trova sbocco al mare) nella provincia dello Xinjiang e lungo lo Yangtze.
Ben presto l’ottimismo dei tecnici cinesi si è scontrato con una serie di problematiche di varia natura. Prima di tutto la profondità dei depositi di idrocarburi che, a causa delle caratteristiche morfologiche del suolo cinese, si trovano a 2500/3000 metri, dispersi e difficili da raggiungere. In più una diffusa ritrosia da parte delle aziende occidentali a condividere tecnologie per l’estrazione del gas di scisto, attribuibile a timori legati alla violazione dell’IP, ha complicato ulteriormente le cose. Il monopolio esercitato sulle operazioni da parte di Sinopec e dell’altro gigante del petrolio cinese CNPC (da sole controllano il 75 per cento dei shale fields in Cina), ha fatto il resto, obbligando Pechino a rivedere le stime di crescita del settore che si sono assestate sui 9 miliardi di metri cubi per il 2017, ben lontani quindi dagli obiettivi sbandierati.
Ora un nuovo ostacolo, non previsto. L’ostilità della popolazione locale, inizialmente poco informata, poi sempre più cosciente dei danni ambientali che l’industria dello shale gas sta portando alle loro terre e quelli fatti altrove (vedi gli Stati Uniti). Gli eventi sismici si vanno infatti a sommare a un inquinamento generalizzato delle falde acquifere che assorbono sabbia e sostanze chimiche pompate ad alta pressione nel sottosuolo durante la fase di fratturazione idraulica. Il gas che fuoriesce e che non è assorbito, si disperde poi nell’atmosfera.
Sono queste le avanguardie di un movimento antifracking cinese? Presto per dirlo, per il momento il governo ha deciso la sospensione delle operazioni e la chiusura dei 39 pozzi presenti nella contea di Rong.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.