La FAO stima che circa un terzo della produzione globale annua di cibo (pari a 1.3 miliardi di tonnellate) non raggiunga le tavole e vada sprecata. Ai dati sempre più precisi sullo spreco alimentare si aggiunge la consapevolezza che gli effetti del fenomeno vanno ben al di là dell’impossibilità di sfamare chi ne avrebbe bisogno. Produrre cibo, infatti, costa sia in termini di utilizzo di risorse (acqua, terreno) sia di energia, ed è fonte di emissione di gas climalteranti come qualsiasi altra attività. Tutto questo non permette più di derubricare il tema dello spreco di cibo, alla sola dimensione culturale/etica. Il baluardo dell’efficienza in tutti gli ambiti, in cui si sta incanalando il discorso sulla sostenibilità, passa necessariamente anche attraverso una più oculata gestione delle risorse alimentari prodotte e degli scarti delle stesse.
Il cibo non consumato, oltre a rappresentare uno spreco, viene infatti reintrodotto in natura, attraverso lo smaltimento, che è rappresenta di per sé un’ulteriore fonte di emissione di gas nocivi con effetti importanti sugli ecosistemi. Gli studi in materia hanno contribuito a far luce sulle varie fasi in cui lo spreco alimentare si manifesta, fornendo la fotografia di un fenomeno complesso, che avviene a più livelli della catena di produzione alimentare.
Dalla raccolta alla conservazione, passando per il trasporto, fino alla vendita e al consumo, la catena è lunga e le possibilità di spreco enormi. A questo si deve aggiungere il fatto che le logiche che regolano i rapporti tra individui e cibo, sono determinate culturalmente e spesso scontano il prezzo di eventi storici significativi oltre che della struttura del comparto alimentare locale. Il caso cinese è abbastanza emblematico su entrambe i fronti.
La storia recente del paese è infatti stata segnata dalle catastrofiche carestie che hanno lasciato, alla fine anni Cinquanta, milioni di vittime, un ricordo ancora vivo nella mente di molti cinesi over ’60. Ne deriva un rapporto complesso con il cibo, bene talmente prezioso per cui il suo spreco è sinonimo di ricchezza e potere raggiunti. Ad oggi, seppur la battaglia con lo fame non si possa dichiarare del tutto vinta – circa 12 milioni di bambini risultavano denutriti secondo uno studio dell’Unicef del 2009, specialmente nelle zone rurali – rispetto al recente passato, i risultati ottenuti dal paese nel potenziare il proprio comparto alimentare sono stati notevoli e le ricadute sulla catena alimentare altrettanto significative.
Il cambiamento non è stato solo quantitativo, ma anche qualitativo. Se nel 1960 un cinese in media aveva a disposizione circa 1700 kcal al giorno, nel 2007 la cifra ha raggiunto le 3036 kcal giornaliere. In più si è passati da un regime alimentare tradizionalmente basato su cereali e verdure, a diete con maggiore apporto di carne (essenzialmente suina) e pesce.
Ad oggi, il fronte alimentare, rappresenta per la Cina una delle emergenze la cui gestione è fondamentale. Il paese si trova,infatti, a sfamare il 21% della popolazione mondiale disponendo del 6% delle risorse idriche disponibili sul pianeta e il 9% delle terre coltivabili. Chiaro che in una situazione vicina al punto di rottura, (individuato dalle autorità in 120 milioni di ettari, soglia aldi sotto della quale la Cina non è in grado di provvedere alla propria sicurezza alimentare), quella dello spreco alimentare diventi in Cina una faccenda tutt’altro che secondaria.
A tentare di fare il punto sulla situazione ci hanno provato alcuni ricercatori cinesi di stanza in Norvegia. Lo studio conferma che la struttura del mercato alimentare cinese non brilla per efficienza ed è in parte responsabile degli sprechi. L’organizzazione decentralizzata e le catene di fornitura ampie, che scontano le diseguaglianze tra diverse parti del paese, sono i problemi principali. A cui si aggiunge l’estensione media della proprietà agricola in Cina, (i tradizionali 5 mu, pari a un terzo di ettaro) fattore che non ha nel tempo permesso ai contadini di raggiungere volumi di vendita – e quindi capitali e finanziamenti -in misura sufficiente ad effettuare le necessarie migliorie tecnologiche. Innovazioni che in parte permetterebbero di mettersi al riparo da perdite nelle prime due fasi della lavorazione agricola: quella di produzione e conservazione e quella di lavorazione e trasporto.
Condannando l’agricoltura all’arretratezza, la si è di fatto resa vulnerabile. Lo studio ha inoltre quantificato che nella la prima fase che comprende anche lo storaggio degli alimenti, produrrebbe le perdite di cibo più significative per ogni tipologia di cibo (e.g., 5.7-8.6% per il grano,2.5-3.7% per la carne, and 10-15% per gli alimenti deperibili). Il trasporto e le evidente mancanze nella catena distributiva e del freddo, sarebbero responsabili di altri sprechi evitabili. Infine fase problematica, è quella che avviene nell’ultimo anello della catena, quello del consumatore. Mentre i dati relativi alle abitazioni (quindi al consumo che viene fatto del cibo nelle famiglie cinesi) confermando la natura parsimoniosa del popolo cinese, il quadro peggiora nettamente quando si passa ad analizzare gli sprechi di cibo che avvengono nell’ambito della ristorazione pubblica (mense, ospedali, scuole) e privata (ristoranti, catering).
Combattere lo spreco di cibo ben si salda con la dirigenza minimalista di Xi Jinping. Il China Youth Daily, organo ufficiale della lega giovanile del partito, ha quantificato in 300 miliardi di yuan (48 miliardi di dollari) le spese sostenute per i banchetti dei funzionari locali nel solo 2012. In un paese dove la tavola è il luogo in cui vengono tradizionalmente chiusi accordi, celebrati a suon di portate pantagrueliche e gān bēi, il cibo rientra nella categoria corruzione che la nuova leadership sembra intenzionata a debellare a suon di regolamenti e proclami.
Anche la società civile ha preso posizione sull’argomento, ne è nata Clean Plate, un’iniziativa di sensibilizzazione sul tema attraverso i social network. E non si è fatto attendere anche il contributo del filantropo-star Chen Guangbiao. Per dimostrare l’entità dello spreco alimentare, il milionario cinese ha sfamato il suo nutrito staff (in tutto una quarantina di persone affamate) con gli avanzi di un ristorante di Nanchino.
*Nicoletta Ferro si è occupata delle dinamiche politiche e aziendali legate alla sostenibilità, prima come senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei a Milano, in seguito per 7 anni da Shanghai. Oggi è ricercatrice presso il CRIOS (Center for Research in Innovation, Organization and Strategy) dell’Università Bocconi e responsabile dello sviluppo asiatico di GOLDEN (Global Organizational Learning and Development Network) for sustainability, un network di ricerca globale sui temi della sostenibilità.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.