Nel corso degli anni la Cina ha più volte confermato il proprio sostegno alla Dichiarazione dei Diritti Umani, violandone però di fatto il principio di universalità in numerosi casi, applicando un’interpretazione “domestica” dei diritti umani, giustificata dietro la bandiera dell’‘occidentalismo’ di cui la Dichiarazione si farebbe portavoce e che mal si adeguerebbe alle cosiddette ‘circostanze cinesi’.
Era il 2017 quando Pechino mise nero su bianco la propria visione dei diritti umani esplicitandola nella Beijing Declaration on Human Rights, da non confondersi con la Beijing Declaration and Platform of Action, che fu invece l’agenda sulla questione di genere che uscì dalla Conferenza di Pechino sulle donne del 1995.
L’occasione per rendere pubblica l’interpretazione cinese dei diritti umani, fu il South-South Human Rights Forum, che vide la partecipazione di 300 delegati da più di 50 paesi da paesi africani ed economie emergenti orbitanti nella sfera di Pechino, oltre che rappresentanze da Siria, Iran e Corea del Nord, paesi che com è noto hanno una scarsa cultura e un basso livello di protezione dei diritti umani.
Come dichiarò il ministro degli esteri Wang Yi in apertura del Forum: “Questa è la risposta della Cina alla domanda, dove sta andando la società umana”, esortando i paesi in via di sviluppo a “proteggere i diritti umani a loro modo giacché non esiste una soluzione valida per tutti”. Il rifiuto dell’universalità dei diritti umani, e il pensiero che possa esistere una declinazione nazionale o culturale degli stessi, è già di per sé un modo per congedarsi dal concetto stesso di diritti umani e per aprire il dibattito verso qualcosa di nuovo che però la Cina non definisce con chiarezza. In chiusura del Forum il presidente Xi Jinping avvertiva: “Non vogliamo importare modelli dall’esterno. E non vogliamo esportare il nostro modello. Non faremo mai pressione su altri paesi perché adottino il modello cinese“.
Da notare è che quelli erano i tempi in cui la Cina muoveva i primi passi nel tentativo di “normalizzare” la componente etnica Uigura in Xinjiang, mettendo in piedi quello che è oggi a tutti gli effetti un sistema di oppressione votato alla conversione culturale che sistematicamente viola i diritti umani fondamentali di una minoranza. Sullo sfondo vi era l’ascesa di Trump che da lì a poco avrebbe fatto a pezzi le certezze dell’era Obama, aprendo la via ai sovranismi. Come ha osservato, Jonathan Holslag, accademico della Free University di Bruxelles, commentando lo scenario in cui vide luce la dichiarazione “il bastione liberal-occidentale iniziava a scricchiolare e la Cina individuò quello come il momento ideale per rafforzare il proprio potere normativo” per giunta su una questione delicata come quella dei diritti umani.
Ma in cosa consiste questa versione cinese dei diritti umani? E in che modo viene smontata l’idea di universalità? Questo obiettivo è evidente già dall’Articolo1 della Beijing Declaration che sostiene “la realizzazione dei diritti umani deve prendere in considerazione i contesti regionali e nazionali, e i panorami politici, storico, economici, culturali e religiosi. La causa dei diritti umani può essere sostenuta solamente se in accordo con le circostanze locali e i bisogni delle persone. Ogni stato é tenuto a scegliere il proprio cammino in ambito di diritti umani”.
Quanto ai diritti riconosciuti, l’Articolo 3 enuncia delle priorità, concependo il diritto alla sussistenza e allo sviluppo, quali diritti fondamentali e fondanti, che vengono prima dei diritti delle persone. Secondo questo ragionamento ogni altro diritto deve cedere il passo alle priorità di sviluppo e piegarsi al mantenimento della stabilità. Un altro artificio interessante che demolisce l’universalità del concetto é quello citato all’Articolo 5 che distingue tra diritti, ed esercizio degli stessi. Mentre riconosce i diritti inalienabili, il loro esercizio è contingentato alle situazioni e al contesto esterno e regolato dalla legge sulla base “dei legittimi bisogni di sicurezza nazionale, ordine pubblico, salute pubblica, morale pubblica e il benessere generale delle persone“ .
L’Articolo 6 menziona poi la libertà religiosa, che sebbene sia prospettata come libera scelta deve assoggettarsi alla legge locale e all’integrazione all’ambiente locale. Questo implica che nel momento in cui le religioni, teoricamente libere, vengono considerate dalle autorità ostili alla legge locale, possono essere altrettanto liberamente perseguite. Infine l’Articolo 8, che recita “La preoccupazione della comunità internazionale per i diritti umani, deve sempre seguire il diritto internazionale e le norme universali riconosciute tra le quali come fondamentale si annovera il rispetto della sovranità nazionale, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni”, vale a dire gestiamo la questione dei diritti umani come meglio ci pare e nessuno può metterci il becco.
Ora, la Beijing Declaration on Human Rights, che farebbe inorridire i padri fondatori della dichiarazione dei diritti umani – tra i quali vale la pena di ricordare figurava anche un diplomatico cinese Peng-Chun Chang, che cercò di permearla di principi confuciani – fino ad oggi non aveva ricevuto alcun tipo di riconoscimento dalla comunità internazionale, ed era rimasta affare interno di Pechino. Da pochi giorni è però riapparsa, E’ accaduto lo scorso 9-10 dicembre, quando Pechino ha ospitato il secondo South-South Human Rights Forum organizzato dallo State Council information Office e dal Ministero degli Esteri. Il tema scelto per questa edizione è stato “Diversità delle civiltà e sviluppo globale dei diritti umani”, e ha attirato più di 300 partecipanti da Asia, Sud America e Africa, oltre a una sparuta presenza di occidentali.
Nel corso del forum si è discusso di sviluppo e dei passi in avanti fatti dalla Cina, della Nuova via della seta e di come porterà benessere ai paesi che ne saranno coinvolti e, come riporta l’agenzia di stampa cinese Xinhua, “dell’ossessione occidentale per i diritti e le libertà civili.” Lamentando un doppio standard delle democrazie occidentali sulla questione, il portavoce del presidente del Burundi ha affermato “ci stiamo rendendo conto che sopratutto i paesi occidentali, utilizzano la questione dei diritti umani per farsi largo nelle comunità dei paesi in via di sviluppo. Diritti umani in Cina e diritti umani in Africa, non abbiamo nulla da imparare dall’occidente”.
Nel corso del forum si è avuta una nuova conferma della centralità della Dichiarazione di Pechino sui Diritti Umani, quale tentativo di Pechino di costruire un’alternativa alla visione prevalente. Come ha affermato Lionel Vairon, delegato belga e Senior fellow de Charhar Institute, un think tank con sede in Cina “E’ importante che gli altri paesi capiscano che la Cina ha la propria filosofia sui diritti umani”.
Dal resto del mondo, non vi è stata alcuna reazione sul riapparire della Dichiarazione di Pechino e sul consenso che ha incontrato tra una nutrita rappresentanza di paesi ormai entrati nell’orbita cinese.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.