La comunità scientifica per voce dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (Ipcc), principale organismo internazionale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ha reso noto, alla vigilia del Summit di Katowice (COP24), che se le cose continueranno in questo modo, l’aumento della temperatura media globale della terra supererà 1,5 gradi centigradi entro il 2040, tradendo così i limiti stabiliti dall’Accordo di Parigi. Ci rimangono ancora pochi anni per invertire la rotta e mettere a regime nuovi modi di produzione e di consumo. Troppo pochi per poter intervenire in modo efficace, troppi per non fare nulla e attendere che si verifichino gli scenari climatici drammatici a cui già assistiamo.
In questo situazione di urgenza, torna in auge l’idea di utilizzare tecniche di ingegneria climatica, ovvero intervenire artificialmente sul clima per arrestare o deviare gli effetti dei cambiamenti climatici. Le conseguenze a lungo termine di queste manipolazioni, rimangono però ancora tutte da dimostrare.
L’opposizione all’interno del mondo scientifico nei confronti di queste tecniche è forte. Un gruppo di scienziati ha espresso il proprio disappunto sulla rivista Nature, a proposito della geoingegneria solare (tecnica che prevede l’immissione nell’atmosfera di grandi quantità di aerosol di diossido di zolfo, imitando l’effetto di raffreddamento provocato dalle eruzioni vulcaniche) definendola “stravagante e preoccupante, una cosa da fantascienza”.
La Cina segue da anni il dibattito tra sostenitori e detrattori delle tecniche di geoingegneria, che ha essenzialmente luogo tra Europa e Stati Uniti, e che si è acutizzato in seguito all’intervento del premio Nobel Paul Crutzen, il primo a parlare di un piano B per il clima.
Per Pechino l’appeal della geoingegneria è senza dubbio forte, perché soluzioni in tempi brevi per problemi ai quali il governo deve far fronte con prontezza, se non vuole trovarsi a gestire ondate destabilizzanti a livello sociale.Di fatto la Cina già gioca con il clima. In molti ricorderanno la sorpresa che accompagnò la pioggia artificiale provocata ad arte alla vigilia della cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino del 2008, per eliminare l’afa estiva e assicurarsi un cielo terso per la mondovisione.
Il paese vanta un costoso programma di ricerca finanziato dal Ministero della Scienza e Tecnologia. Con un budget di 3 milioni di dollari, coinvolge almeno tre istituti di ricerca universitari, impegnati nel capire quali siano gli effetti dell’utilizzo di queste tecniche per alterare il clima e in questioni di governance. Il progetto non include lo sviluppo di tecnologie o esperimenti sul campo anche se di fatto sperimentazione ne esistono.
Sul plateau Tibetano e in altre regioni del paese, un sistema di “cloud seeding” per la produzione di pioggia artificiale è in costruzione. ‘Sky river’ si compone di centinaia di camere di combustione che copriranno un’estensione pari alla Spagna. Pronte entro il 2022 le camere bruceranno carburante solido in grado di produrre particelle di ioduro d’argento, utilizzato per ‘inseminare’ le nuvole. In tal modo si intendono aumentare le precipitazioni passando così dai 55 miliardi di tonnellate di pioggia artificiale prodotta all’anno dalla Cina ai 250 miliardi.
Altro progetto in corso di realizzazione sono le torri mangia smog, la prima già attiva a Xian. Si tratta di impianti dell’altezza di 100 metri che risucchiano l’inquinamento, filtrandolo e rilasciando aria pulita. Per il momento sembrano dare buoni risultati e altre sono già in costruzione.
Oltre alle conseguenze a lungo termine sugli equilibri naturali, i temi legati alla geoingegneria aprono scenari di riflessione etica e di stretta pertinenza geopolitica.
Secondo alcuni infatti, queste tecniche potrebbero diventare un ostacolo e ritardare l’implementazione di metodi più ortodossi per la riduzione delle emissioni. Mentre rimane aperta la questione della governance e del controllo di queste tecniche che, secondo alcuni osservatori, hanno il potenziale per scatenare una guerra climatica. s
In questo ambito Pechino si muove con cautela e ci tiene a dare rassicurazioni. Per voce di Cao Long, scienziato cinese coinvolto nel progetto del Ministero, ha affermato che “fare ricerca non significa necessariamente implementare soluzioni per il futuro. La ricerca stessa ha di per sé valore scientifico”.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.