Gli audit (lunli shenjì) sono al momento i principali strumenti di monitoraggio nelle mani delle multinazionali occidentali per assicurarsi la conformità dei propri fornitori ai principi stabiliti dai codici di condotta. Riflettono gli standard internazionali esistenti in materia di rispetto dei diritti dei lavoratori e di salvaguardia dell’ambiente. In Cina però favoriscono le aziende. Ecco come.
La Cina è ormai abituata agli audit, essendo da un ventennio sotto il riflettore di governi, organizzazioni internazionali e Ngos. Fin qui nulla di nuovo. Ma il fatto che i processi di monitoraggio siano ormai un business milionario, nelle mani di società di consulenza internazionali e di nuove realtà che spuntano come funghi, non ne fa necessariamente gli strumenti migliori. Una ricerca condotta nel 2013, mette a nudo le criticità esistenti negli audit sul campo, condotti fabbrica per fabbrica e comprensivi di interviste ai manager e a lavoratori presi a campione.
Gli esperti interpellati hanno infatti dichiarato che il numero degli audit effettuati attualmente in Cina risulterebbe eccessivo, cosa che va a discapito della qualità delle rilevazioni stesse. Esistono aziende, specie se fornitrici di grandi multinazionali che del sistema di audit fanno uno dei pilastri delle proprie politiche di responsabilità, che si vedono arrivare 40/50 audit in un anno. Inoltre è ormai possibile tracciare precisi profili di ‘cattive pratiche’, limitate geograficamente e talmente radicate da essere ben note a tutti e da rendere le operazioni di auditing superflue.
La proverbiale pragmaticità cinese ha poi permesso lo svilupparsi di notevoli competenze nell’aggirare i controlli. Il metodo più semplice è prevenirli. Un preavviso, spesso frutto di una “soffiata” dell’auditor locale (spesso giovane e poco preparato) ben oliato da vistose hongbao, è stato individuato dagli esperti, come il limite principale che incoraggia pratiche di ‘manipolazione’ delle informazioni rilevanti, giacché lascia tempo e modo alle aziende per ‘imbeccare’ i lavoratori sulle giuste risposte da dare, per rimaneggiare documenti e i libri contabili o duplicare le buste paga al fine di registrare pagamenti superiori a quelli reali.
L’analisi mette poi in luce un altro aspetto significativo che riguarda il ruolo di ‘responsabilità’ attribuibile al buyer. In molti casi, infatti, avviene che, pur essendo consapevole delle anomalie presentate dai fornitori, la volontà di portare a termine la produzione nei tempi stabiliti, e di non vanificare rapporti per altri versi già ben rodati, fa si che si chiuda gli occhi, diventando in tal modo complice nella violazione degli standard. La conformità con i codici di condotta sembra a volte essere considerata alla pari di un criterio di acquisto di natura non economica che è possibile negoziare con altri criteri non economici (es. tempi di consegna, qualità) ed economici, facendo ormai dell’audit una commodity, al pari di molte altre
Insomma una situazione non particolarmente rosea quella dei sistemi di audit in Cina. Parecchi sforzi si stanno attualmente facendo per ottimizzare gli sforzi: banche dati condivise da brand e retailers che condividono gli stessi fornitori, permettono di diminuire i controlli e la creazione degli audit settoriali, come quello di recente inaugurato dal settore chimico (TfS initiative) che permette di standardizzare le procedure di verifica. Tutto questo va certamente a favore delle aziende, che riducono i costi, ma non rappresenta ancora una garanzia per lavoratori e ambiente. Per il momento l’audit è ancora troppo limitato a individuare gli errorri, quando ci riesce, mancano le proposte valide su come risolverli.
*Nicoletta Ferro si è occupata delle dinamiche politiche e aziendali legate alla sostenibilità, prima come senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei a Milano, in seguito per 7 anni da Shanghai. Oggi è ricercatrice presso il CRIOS (Center for Research in Innovation, Organization and Strategy) dell’Università Bocconi e responsabile dello sviluppo asiatico di GOLDEN (Global Organizational Learning and Development Network) for sustainability, un network di ricerca globale sui temi della sostenibilità.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.