In Asia l’accessibilità a competenze ed esperienze utili alla protezione ambientale è anche una questione di lingua. Una lingua che tiene ancora separati attori locali e mondo della ricerca. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia
Le barriere linguistiche hanno un ruolo fondamentale nell’influenzare l’azione ambientale nei contesti di protezione della biodiversità. È quanto conclude una nuova ricerca pubblicata su Nature lo scorso 16 marzo. “The role of non-English-language science in informing national biodiversity assessments” è uno studio condotto da un nutrito team di esperti che hanno collaborato a livello internazionale per andare a capire fino a che punto il monopolio della lingua inglese nelle pubblicazioni scientifiche ha un impatto sulle operazioni di valutazione e implementazione delle attività di protezione della biodiversità.
Secondo quanto rilevato dallo studio, che ha analizzato le valutazioni sulla biodiversità redatte da chi si occupa di aree protette e conservazione, il 65% della letteratura di riferimento è nella lingua locale. Circa un quarto degli attori che si occupano delle questioni locali, infatti, ritengono difficile approcciarsi alle fonti in lingua inglese. La problematica è reciproca: da un lato i protagonisti sul campo faticano a comprendere – e di conseguenza, a interessarsi – delle pubblicazioni accademiche prodotte in lingua inglese. Dall’altro, i ricercatori rischiano di tralasciare una mole fondamentale di informazioni ed esperienze che potrebbero contribuire significativamente all’analisi e alla risoluzione delle problematiche legate ai contesti di protezione della biodiversità.
Nel mezzo si trova un insieme di saperi, pratiche ed esperimenti che non solo rischiano di perdersi in un mare di informazioni complesse, ma che infine non arrivano ai diretti protagonisti delle problematiche di cui si parla: la popolazione e i suoi rappresentanti. Allo stesso modo, coloro che hanno competenze e possibilità economiche di fare ricerca e studiare soluzioni faticano ad avere cognizione delle analisi e dei dati che emergono a livello locale. Tutti elementi che problematizzano l’idea di giustizia ambientale e la portano sul piano dell’accessibilità del sapere.
E l’Asia?
L’Asia è uno dei continenti su cui si è concentrato il team di ricercatori dietro allo studio. Qui si trovano alcuni dei cosiddetti paesi “megadiversi”, chiamati così per l’alta concentrazione e la ricchezza di specie animali e vegetali. E proprio in questi paesi, come nel caso di Cina e Indonesia, il livello di lingua inglese è valutato come mediamente basso. Lo stesso vale per alcune delle zone oggi più a rischio dal punto di vista della tutela ambientale, per esempio Cambogia, Thailandia e Myanamar: tutte nazioni che l’English proficiency index di EF inserisce nel gruppo “very low proficiency”. Il Laos occupa l’ultimo posto della classifica, che fa uno studio di 111 paesi.
La Cina rimane uno dei paesi più importanti per il futuro della biodiversità. Protagonista della COP15, ha diretto i lavori del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (Gbf). Oggi il Gbf rappresenta il nuovo piano d’azione che le parti si impegnano a seguire per combattere la perdita della biodiversità e degli habitat naturali. Anche in Cina le valutazioni sulla biodiversità dipendono in buona parte da una letteratura prodotta in lingua cinese, mentre solo una piccola parte delle pubblicazioni accademiche nel paese utilizza la lingua inglese. Uno sbilanciamento che rende difficilmente accessibili i dati raccolti dai ricercatori cinesi. Allo stesso tempo, molte conferenze e incontri non sarebbero possibili senza la presenza degli interpreti, aggiungendo così una barriera che ancor prima di diventare un ostacolo procedurale rappresenta di per sé un ulteriore costo economico e mentale per gli enti e gli individui coinvolti.
Per il Sud-Est asiatico, con l’eccezione di Singapore, l’ostacolo della lingua si aggiunge alla già difficile disponibilità di risorse umane ed economiche necessarie alla cooperazione internazionale. Una situazione che distoglie l’attenzione su casi capaci di dimostrare l’efficacia delle misure di protezione ambientale, come dimostra uno studio del 2021 dedicato ai risultati della conservazione ambientale. Nell’articolo si evidenzia come un regime di gestione collaborativo abbia avuto un impatto positivo sui progetti di protezione della biodiversità, dando ancora una volta spazio alle riflessioni su quanto sia necessario il dialogo tra realtà e competenze diverse.
Nel contesto asiatico la necessità di costruire ponti diventa urgente quando prendiamo in considerazione il fenomeno del traffico illecito di animali e specie vegetali. Secondo il World Wildlife Crime Report dell’Onu l’Asia è uno dei principali centri dove si svolgono questo tipo di attività. E il trend è in crescita. Così come aumentano le deforestazioni e i progetti energetici impattanti sull’ambiente.
Monopolio della conoscenza e popoli indigeni
L’obiettivo 21 della Convenzione sulla Biodiversità (Cbd) firmata in chiusura della Cop15 mette al centro le conservation communities. Il mantenimento degli habitat naturali non può essere esclusivamente relegato alle aree protette, e che le comunità svolgono quindi un ruolo centrale nella convivenza con l’ambiente circostante e per la sua preservazione. Si tratta di recuperare i sistemi socio-biologici integrati nelle comunità.
Non è un caso che in cima agli attori che vengono considerati più adatti e coerenti a queste attività vengano incluse le comunità indigene e il loro approccio “bioculturale” al territorio – l’integrazione delle attività umane coerente con le risorse disponibili e una visione legata alle dinamiche di quella determinata area. Oggi, però, sono proprio le popolazioni indigene a trovarsi perlopiù in situazioni di difficooltà che ne impediscono l’accesso all’istruzione superiore. Un passaggio non indifferente, che ne ostacola l’ingresso ai luoghi del potere e alla visibilità mediatica, sociale e politica.
In Asia alcuni governi locali hanno iniziato a intraprendere delle iniziative di protezione ambientale più attente alla situazione reale del luogo, come nel caso del progetto di riforestazione e tutela delle mangrovie nell’area di Ranong, in Thailandia. Ma mancano spesso le competenze e il confronto con altre realtà virtuose. O manca la documentazione necessaria per comprendere meglio i fenomeni e le soluzioni possibili partendo dalle pratiche di coesistenza con gli habitat naturali delle popolazioni indigene. “L’Asia è cruciale nella battaglia contro il cambiamento climatico”, titola l’Economist. Ma come potrà essere cruciale lo determinerà anche l’accessibilità linguistica. Tanto per chi deve conoscere, che per chi deve ascoltare e studiare soluzioni.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.