Zhang Hongzhou, ricercatore sui temi della sicurezza delle risorse ambientali alla Nanyang Technological University di Singapore lo dice senza troppi giri di parole: “Per i leader cinesi, assicurare costanti forniture di prodotti ittici non è solo una questione economica ma anche di stabilità sociale e di legittimità politica”.
E fin qui nulla di nuovo. È un discorso già sentito e che viene di solito riferito alle risorse agricole e declinato in chiave domestica. Il dragone non riesce a far fronte alle esigenze alimentari della propria popolazione, cambiate sia nella quantità sia nella qualità, come conseguenza dell’aumento dei redditi e dell’evoluzione degli stili di vita.
Questo vale anche per i prodotti ittici, non solo pesce ma anche crostacei e molluschi, di cui la Cina è ghiotta, e verso cui vira in cerca di proteine animali allo scoppio di ogni scandalo legato alla carne. Un consumo, quello cinese, che ammonta al 37% sul totale mondiale e che nel 2016 é cresciuto fino a raggiungere 14.8 kg pro capite nelle aree urbane e 7.5 Kg in quelle rurali, cifre in crescita, ma ancora inferiori ai consumi di carne che si toccano i 39 kg pro capite nelle aree urbane.
Da decenni una flotta di mezzo milione di pescherecci costituita da piccole e medie imbarcazioni, solcano i mari cinesi senza alcun tipo di controllo, esercitando la pesca con tecniche spesso invasive e distruttive, e producendo una pressione sull’ecosistema marino, già piegato dall’inquinamento e dagli effetti dei cambiamenti climatici.
La flotta domestica è, da una trentina di anni, affiancata da circa 2600 pescherecci per la pesca d’altura, la flotta più grande al mondo, almeno dieci volte quella americana, orgoglio cinese ma anche fonte di grande preoccupazioni. Sebbene nella maggior parte non si tratti di imbarcazioni tecnologicamente avanzate, sono capaci di carichi enormi e in certi casi sono dotate di equipaggiamenti per la lavorazione del pesce a bordo.
Attiva sia nelle acque nazionali sia in quelle di paesi vicini come Corea, Taiwan e Indonesia, la flotta cinese è presente in tutti i mari del mondo: America latina, nei mari europei e al largo delle coste dell’Africa occidentale.
Global Fishing Watch, NGO americana che si occupa di tenere alta l’attenzione sulla necessità di uno sfruttamento sostenibile delle riserve ittiche mondiali, ha studiato per anni e analizzato, con il supporto di Google delle tecnologie di tracking satellitare, i movimenti dei pescherecci negli oceani, per capire come e quando operano e soprattutto dove.
La fotografia che ne esce, pubblicata di recente sulla rivista Science, riserva un’attenzione particolare alla Cina la cui flotta risulta essere ben più grande di quella realmente dichiarata dalle autorità. Lo studio rivela che, nel solo 2016, i pescherecci cinesi hanno accumulato 17 milioni di ore di pesca al largo delle coste cinesi e in altri mari.
Una forza d’urto impressionante che solca gli oceani, praticando una pesca non selettiva ed indiscriminata che porta alla cattura accidentale di specie non bersaglio con forte impatto sulla biodiversità marina e alterazione della composizione e degli equilibri degli ecosistemi marini.
Lo studio rivela quello che già si sapeva e che costituisce un grosso grattacapo per le autorità di Pechino. La flotta cinese è spesso protagonista di episodi di sconfinamento nelle zone economiche esclusive (ZEE), le 200 miglia marine di esclusivo controllo dei paesi costieri, riconosciute dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), e che pur occupando solo il 35 % della superficie totale dei mari, ospitano il 90 % delle risorse alieutiche mondiali.
Mentre qualche paese si ribella e fa la voce grossa come Indonesia, Argentina e Corea del sud, altri subiscono in silenzio perché legati a doppia mandata alla Cina, come nel caso di molti paesi africani.
La situazione è considerata con la massima serietà da Pechino, impegnata a costruire un’immagine del dragone come potenza, anche marittima nella cornice della Nuova via della seta. Il governo è fortemente preoccupato dei disastri ambientali e diplomatici che la propria flotta causa in giro per il mondo, e in ambito domestico intende alleggerire il peso sulle proprie riserve ittiche eccessivamente sfruttate, per incentivare anche l’acquacoltura.
Nel tentativo di regolamentare un settore per sua natura poco controllabile come la pesca, bloccando la pesca illegale e altri tipi di illeciti, il Ministero dell’Agricoltura è intervenuto lo scorso febbraio, pubblicando una lista nera delle imbarcazioni e dei loro capitani implicati in episodi di violazione e inasprendo le sanzioni. Per i colpevoli è prevista la sospensione della licenza di pesca, il taglio dei sussidi per i carburanti e per i capitani l’impossibilità di imbarcarsi per 5 anni. Non abbastanza dicono molti, ma comunque un passo importante.
Il problema della flotta d’alto mare cinese è essenzialmente legato alla sua rapida crescita, avvenuta negli ultimi 30 anni, cavalcando l’onda di una blue economy sostenuta in primis dal governo. Passata da zero ad essere la più numerosa flotta al mondo, regole e cultura non sono cresciute di conseguenza, lasciando imbarcazioni ormai obsolete alla mercé di piccole e medie aziende totalmente all’oscuro delle norme internazionali sulla pesca, e delle regole basilari per la sicurezza e la preservazione degli ecosistemi marini.
Se fino a ieri era impensabile presidiare i mari, oggi con le tecnologie satellitari e i big data, diventa più agevole quantomeno esercitare una forma di macro controllo. Certo le leggi sono spesso aggirabili, e i pescherecci cinesi lo sanno bene, trovando modi creativi per continuare a pescare indiscriminatamente senza violare la legge oppure facendo leva su paesi con una governance debole come quelli di molti paesi africani guidati da élite corrotte che spesso cedono di fronte ad allettanti contratti, concludendo contratti che vanno a colpire le popolazioni locali che di pesca vivono.
In Mauritania, per esempio, un’azienda cinese è riuscita firmare un accordo segreto con il governo per costruire un impianto e dislocare 80 pescherecci, in cambio di investimenti per 100 milioni di dollari. Gli effetti sulle comunità di pescatori locali sono stati devastanti. Anche in Ghana le riserve ittiche sono crollate nell’ultimo decennio per via della presenza cinese, obbligando il paese a importare pesce, di cui era ricco, per sfamare la propria popolazione. Al largo delle coste pescherecci battenti bandiera ghanese sono a tutti gli effetti cinesi. La Liberia, invece, è riuscita almeno per una decina di anni a chiedere le proprie acque ai pescherecci cinesi, permettendo di far ripartire l’economia e ripopolare le acque. Non si sa però quanto questa situazione potrà andare avanti e giù i primi pescherecci cinesi stanno ricomparendo nelle acque del paese. Infine il Madagascar che, dal presidente uscente Rajanarimampianina ha ereditato un accordo, concluso in barba ai divieti che impedirebbero di prendere impegni nei 60 giorni che precedono le elezioni e che di fatto permette la presenza di 300 pescherecci cinesi nelle acque malgasce. Forte la reazione della popolazione civile e delle NGO locali, decisi a impedire che questi accada.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.