Improvvisazione, velocità, flessibilità. E’ così che le aziende hanno dimostrato di essere riuscite a rispondere ai desideri di un consumatore sempre più sofisticato ed esigente. E’ giunto quindi il momento di imparare qualcosa dal turbo capitalismo cinese, anche in materia di management. Senza dimenticare le "caratteristiche cinesi" del mercato a cui si rivolgono.
In pochi si sono fino ad ora interessati ad approfondire i meccanismi di funzionamento delle aziende cinesi. La narrazione sul cosidetto “modello cinese”- sempre che ne esista uno – ci ha abituato all’idea di un sistema imprenditoriale incentrato sulle SOEs, le imprese di Stato, campioni di spreco di denaro e risorse e mecca degli interessi politici del partito, a fronte di un più snello settore privato, indebolito dalla mancanza cronica di credito. A molti questa storia è bastata. convinti della spiegazione che attribuiva gli sbalorditivi numeri della crescita cinese al magico mix tra costo del lavoro, far west legislativo e supporto statale.
Ma ora non basta più. Complice la IPO da favola del gigante Alibaba e la progressiva internazionalizzazione di molti imprese cinesi, l’immagine della fabbrica del mondo ha lasciato il posto a quella di una più matura potenza economica. Si è quindi avvertita la necessità di approfondire i meccanismi che presiedono il funzionamento dell’ecosistema aziendale cinese, con scoperte davvero interessanti. A colmare il vuoto conoscitivo ci hanno pensato due tra le riviste di management più prestigiose al mondo, voce del dibattito accademico e aziendale sui temi dell’impresa, la “Sloan Management Review” dell’MTI e l’Harvard Business Review”, edita dal prestigioso ateneo di Boston.
Le ricerche, in entrambi i casi, sono il risultato di anni di studi in aziende campione appartenenti a settori molti diversi, dalla produzione di semiconduttori alla manifattura di pianoforti. In entrambi però, si giunge alla conclusione che sia finito il tempo in cui si insegnava ai cinesi come gestire le proprie aziende. E’ giunto il momento di imparare qualcosa dal turbo capitalismo cinese, anche in material di management. Sebbene il tipo di innovazione delle aziende cinesi non sembri produrre idee rivoluzionarie per il management, il comparto privato cinese mostra un’inusitata capacità di dare risposte adeguate agli imperativi di mercato, in scenari sempre più diversificati e incerti quali quelli attuali.
Un’innovazione accellerata (accelerated innovation), quella delle aziende cinesi, le cui parole d’ordine sono: improvvisazione, velocità, flessibilità. Parole in cui molti stranieri che hanno a che fare con la Cina stenteranno a riconoscere i propri interlocutori d’oltre muraglia. Eppure è così, le aziende selezionate come campione in entrambe le ricerche, hanno dimostrato di essere riuscite a rispondere ai desideri di un consumatore sempre più sofisticato ed esigente. Come? Con un flusso continuo di prodotti, frutto di un sistema che sforna novità o upgrade seppur minimi, alla velocità della luce. Una formula questa, fedele a quella che l’ex CEO di Samsung Yun Jong Yong, ha descritto come la “Sashimi theory”: il pesce più fresco e di qualità raggiunge le tavole e i portafogli migliori, il resto sono scarti.
In pratica la ricerca rilegge molte delle caratteristiche già note del sistema cinese, riconoscendogli però ora una valenza strategica. La maestria nel tagliare i costi, ad esempio, è letta quale capacità di riorganizzare la catena produttiva, eliminando costi addizionali e sprechi inutili. Riorganizzazione che tocca anche il comparto dell’R&D, la ricerca e sviluppo, che invece di fare affidamento sul tradizionale modello lineare (dall’idea sviluppata da pochi al prototipo, risultato del lavoro di molti) propone una nuova divisione dell’intero processo produttivo, sparcelizzato in un grande numero di fasi affidate a team ristretti che seguono i task assegnati. Una vera e propria linea di assemblaggio dell’innovazione che serve a ridurre i tempi, ridotti anche attraverso processi di “simultaneous engineering”, dove ricerca e sviluppo non procedono per step successivi, bensì in maniera parallela. Non poteva mancare il focus sul processo decisionale. Prettamente cinese in quanto basato su una gerarchia verticale, ma capace di riaggiustare il tiro in corsa e di riconfigurarsi in caso di necessità prima di arrivare al livello apicale per l’approvazione definitiva.
Ovviamente questo particolare modello di innovazione con caratteristiche cinesi, è reso possibile da una serie di condizioni uniche al mercato cinese quali: il numero crescente di consumatori che il mercato offre, il limitato livello di brand equity di molte aziende cinesi (per questo più risposte a rischiare con nuovi prodotti) e un apparato burocratico che per molti versi permette tale dinamismo e lo favorisce.
*Nicoletta Ferro si è occupata delle dinamiche politiche e aziendali legate alla sostenibilità, prima come senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei a Milano, in seguito per 7 anni da Shanghai. Oggi è ricercatrice presso il CRIOS (Center for Research in Innovation, Organization and Strategy) dell’Università Bocconi e responsabile dello sviluppo asiatico di GOLDEN (Global Organizational Learning and Development Network) for sustainability, un network di ricerca globale sui temi della sostenibilità.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.