Per un’industria globale che vale 2.4 trilioni di dollari, tra le più inquinanti al mondo e con un bacino di lavoratori (tra diretti ed indotto) che nel 2017 ha superato i 50 milioni di persone, anche per la moda è arrivato il momento di rendere conto del proprio operato.
Principi e pratiche sono al momento in fase di ripensamento. Grandi gruppi come Gap, Zara, H&M e agglomerati di brand della moda come Kering, stanno investendo milioni in ambiziosi progetti. Protagonista é la catena di fornitura che viene analizzata in ogni sua parte. Dalla produzione della materia prima fino alla modalità di utilizzo da parte del consumatore, la parola d’ordine è economia circolare. Si tratta di limitare lo spreco e riutilizzare quanto sia ancora possibile reinserire nel processo produttivo, perché poco finisca disperso nell’ambiente.
Ci sono però problemi a monte da risolvere, primo fra tutti quello del fast fashion che ad ogni collezione riversa sul mercato miliardi di capi di vestiario. Un recente report della Ellen MacArthur Foundation, valuta in 460 miliardi di dollari, l’ammontare degli sprechi prodotti dell’industria della moda.
Di questi il 53% proverrebbe dalla Cina, circa 70,000 tonnellate giornaliere di prodotti da smaltire e i cui costi di produzione si sono tradotti nell’utilizzo di materie prima, sostanze chimiche riversate nell’acqua e nel suolo, emissioni di Co2. Secondo Greenpeace, l’industria tessile cinese da sola è responsabile del 10% dell’inquinamento delle acque con 72 ingredienti tossici utilizzati nella sola fase di tintura dei tessuti.
Chiaro quindi come questo impegno del mondo della moda debba necessariamente passare dalla terra di mezzo vista nel duplice ruolo di primo produttore mondiale di prodotti tessili ma anche di consumatore.
Per capire che ruolo ha la Cina nella catena di fornitura del tessile, basta dare un’occhiata alla IPE Green Supply Chain Map , uno strumento messo a punto da un centro di ricerca con sede a Pechino The Institute of Public & Environmental Affairs e il gruppo di advocacy ambientale americano Natural Resources Defense Council. Si tratta di una mappa interattiva che segnala più di 15000 aziende sparse sul territorio cinese e fornitori dei maggiori gruppi tessili mondiali, quantificandone l’impatto delle operazioni su acqua ed aria.
Va detto che molto ha fatto la nuova legislazione ambientale che Pechino ha varato e che, a partire dal 2014, e che si è andata consolidando e strutturandosi negli anni, ha stretto le maglie e inasprito le regole di un settore che in Cina sembrava aver trovato il proprio contesto ideale. Dapprima il target sono state le imprese straniere che in Cina lavoravano con una certa libertà, in seguito anche quelle cinesi, che cedendo alle pressione dei clienti, le grandi brand mondiali, che impongono la linea da seguire.
Alla pressione interna si aggiunge quella dei grandi brand e del loro impegno. Grosso impegno è stato speso per i veleni nascosti, i componenti chimici utilizzati nelle diverse fasi di produzione del tessile e che ammorbano acqua, suolo ed aria. Un esempio è Zero Discharge of Hazardous Chemicals Foundation, nata per supportare le azienda nella riduzione dell’uso di sostanze chimiche nella produzione tessile, per ridurre l’utilizzo di acqua e trovare alternative meno impattanti.
Si é trattato in prima istanza di mappare quali sostanze venivano utilizzate nei processi, una specie di inventario della chimica nel tessile. Poi di informare i fornitori sul pericolo dell’uso di queste sostanze chimiche e infine, la parte più difficile, di trovare delle alternative meno tossiche alle sostanze contenute nella lista. I grandi brand stanno lavorando con i fornitori per sviluppare le competenze necessarie a gestire il cambiamento.
Questo succede nelle catene di fornitura ufficiali, a rimanere fuori sono le migliaia di piccole e medie imprese che sfuggono alle mappature dei grandi brand, o che sono più in basso nella catena del valore.
Che l’attenzione all’ambiente e alla qualità dei prodotti sia la strada maestra lo raccontano le stesse imprese cinesi che in occasione dell’ultimo CSR Asia Summit, hanno detto la loro su come stiano operando. La ricetta del gigante del sourcing Li & Fung per combattere gli sprechi, consiste, ad esempio, nel mettere in collegamento fornitori, designers e clienti con una piattaforma di design virtuale in 3D che crea copie virtuali dei modelli. In questo modo si accelerano i temi di produzione, si limitano gli sprechi e si risparmia sui trasporti e sull’impatto sull’ambiente. Il gruppo Esquel, fornitore di cotone brand come Ralph Lauren, Tommy Hilfiger and Nike, ha invece investito miliardi in un impianto per il trattamento delle acque reflue, tra i più grandi nel paese. Mentre Crystal Group che vanta tra i propri clienti Gap, H&M e Levi’s ha implementato sistemi per realizzare capi denim con un impatto ambientali limitati in termini di sostanze chimiche usate e utilizzo di acque.
La Cina quale hub della manifattura tessile mondiale innova, adeguandosi alle richieste di un mercato che non è però ancora quello domestico. Brand e consumatori cinesi non sono nel loro complesso particolarmente sensibili, specie quando si parla di moda agli impatti dei prodotti che acquistano. Certo chiedono qualità e sicurezza, specie per i più piccoli, ma la soglia di attenzione che il comparto del food ha acquisito tra il pubblico cinese in questi anni, ancora manca al tessile.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.