Il sesto report Ipcc sui cambiamenti climatici ha lanciato un appello all’umanità, ma il discorso pubblico stimolato dai media è ancora acerbo, anche in Cina. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia
Che la visita di Xi Jinping a Mosca abbia occupato le prime pagine dei quotidiani cinesi e internazionali è un dato di fatto. Lo stesso giorno dell’arrivo del presidente cinese in Russia – il 20 marzo – è stata però resa nota un’altra notizia di rilevanza globale: il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, Ipcc) ha reso pubblico il suo sesto rapporto di sintesi. Ultimo di una serie dedicata a fornire prove scientifiche e indicazioni di policy sui cambiamenti climatici, il documento invita ancora una volta a prendere decisioni drastiche e urgenti per non oltrepassare la soglia critica. Quest’ultima, spiega il report, potrebbe essere raggiunta entro la prossima decade e da quel momento le conseguenze del riscaldamento globale saranno irreversibili. L’annuncio della notizia sui canali governativi cinesi, come nel caso della China Meteorological Administration, puntano però l’accento sulle soluzioni suggerite dagli scienziati: “Il rapporto di sintesi mostra che esistono una varietà di opzioni fattibili ed efficaci per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi ai cambiamenti climatici e che queste opzioni sono attualmente praticabili”. Importante qui, sebbene quasi assente dalla comunicazione generalista, l’elemento “cambiamenti climatici provocati dall’azione umana (renlei huodong yinqi de qihou bianhua, 人类活动引起的气候变化”.
Il report Ipcc sulla stampa cinese
La China Central Television, l’emittente nazionale cinese, ha dedicato una manciata di minuti al report Ipcc. Pochi, ma sintomatici di un approccio mediatico alle sfide climatiche globali che Pechino adotta verso entrambi i suoi pubblici, in Cina e all’estero. La breve sintesi dei contenuti del documento enfatizza alcuni punti cari alla leadership cinese, come la constatazione che oggi abbiamo i mezzi per invertire questo trend, spostando l’accento sul potenziale tecnologico anziché sulle contraddizioni e sulle tempistiche. E la giustizia climatica, concetto che mira a posizionare le responsabilità dei cambiamenti climatici sui paesi sviluppati e salvaguardare il Sud globale. Ancora una volta, la narrazione cinese cerca di posizionarsi a metà di un continuum dove può vestire i panni del tutore delle nazioni povere pur rappresentando oggi uno dei principali inquinatori al mondo. Narrazione che, inquadrata in una prospettiva storica validata dai dati, sottintende che la colpa non pesa esclusivamente sulla Repubblica popolare.
A rafforzare questa narrazione si inseriscono le parole del presidente dell’Ipcc Li Hoesung. La notizia del sesto rapporto di sintesi è stata relegata a pochi, sintetici contenuti sui siti di informazione, e i commenti di Li sono stati pressoché l’unico valore aggiunto. Un elemento, anche in questo caso, che contribuisce ad attribuire alla Cina grandi meriti nella lotta ai cambiamenti climatici. “Gli scienziati cinesi hanno dato un grande contributo alla preparazione di tutti questi rapporti e durante questo incontro di revisione, gli esperti cinesi e i rappresentanti del governo hanno dato importanti contributi positivi alla preparazione e alla finalizzazione dei documenti conclusivi”, ha detto il funzionario. “Pertanto, sono molto grato per i loro contributi.” “L’Ipcc ha beneficiato molto dei contributi della Cina e siamo molto grati al governo cinese per la sua fiducia e il suo sostegno al Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici”.
È importante ricordare che sui media cinesi impera il cross-posting, ovvero il rilancio dello stesso articolo su piattaforme diverse. Spesso, inoltre, vengono semplicemente tradotti alcuni articoli pubblicati dai grandi media internazionali. Una modalità che annulla, di fatto, ogni sfumatura e livello di analisi utile a stimolare un dialogo con l’opinione pubblica. Lo stesso avviene nella sfera dei social media, dove l’argomento “cambiamenti climatici” (qihou bianhua 气候变化) non porta a grandi risultati, se non la riproposizione di pochi contenuti di attualità – tra questi l’inserimento ormai consuetudinario nelle dichiarazioni finali durante gli incontri bilaterali.
È peculiare che la stessa dirigenza cinese, nonostante gli appelli alla mobilitazione pubblica adottati anche in altre situazioni di crisi (come durante la pandemia), mantenga una comunicazione sulla crisi climatica che raramente arriva all’intera popolazione – se non addirittura alle fasce più “operative” del Pcc a livello locale. In pubblicazioni-guida come il Quotidiano del popolo, dove invece abbondano i commenti e gli approfondimenti curati da rappresentanti anonimi del Partito o da esperti di settore, il tema climatico è altrettanto marginale. Non si parla del rapporto di sintesi Ipcc e l’articolo più recente è la traduzione di un contenuto sull’iniziativa Onu “Green the United Nations”.
Un dibattito ancora per pochi
Tutto questo non esclude che in Cina esista un dibattito, sebbene difficile da intercettare, sul tema dei cambiamenti climatici. La quantità di interventi e interazioni nel forum Zhihu alla domanda “Il cambiamento climatico è una bufala?” non è paragonabile ad argomenti più caldi come i test di accesso alle università o la vita privata dei vip, ma presenta spesso più informazioni di quante se ne possano trovare nel mondo dei media digitali cinesi. Su queste piattaforme troviamo spazio anche per commenti dal taglio più socioeconomico, così come accade sui canali di settore.
In un commento pubblicato da Caijing Eleven lo scorso novembre, per esempio, il direttore della società di servizi energetici Snam Peng Ningke difende a spada tratta la globalizzazione come soluzione alla crisi climatica. La concorrenza commerciale sarebbe uno dei motori verso l’efficientamento delle tecnologie verdi e lo stesso meccanismo concorrenziale incentiverebbe la corsa delle province cinesi verso un sistema economico più sostenibile: “Se c’è concorrenza tra industrie, devono essere a basse emissioni di carbonio, se c’è concorrenza tra regioni, devono prima soddisfare gli standard di sostenibilità della direzione centrale”.
Nel mondo dell’informazione trovano poco o niente spazio le posizioni ambientaliste più radicali, mentre in una parte del mondo accademico marxista emergono alcune analisi interessanti. È il caso, per esempio, di un articolo di Zhang Yunfei, docente della Scuola di marxismo della Renmin university, uscito lo scorso giugno. Nell’analisi viene definito il concetto di “capitalismo climatico”, ovvero l’espressione neoliberista delle politiche per il clima che cercherebbero di conservare i privilegi dei paesi sviluppati facendo ricadere le conseguenze della crisi climatica sul Sud globale. Paesi come la Cina, inoltre, sarebbero soggetti a un accerchiamento politico ed economico da parte degli Stati Uniti che contribuirebbe ad esacerbare la crisi anziché risolverla. Una posizione che in parte sostiene la retorica del governo cinese ma, dall’altro lato, chiede una revisione più drastica dei sistemi di creazione del profitto adducendo a essi la causa ultima della crisi ambientale.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.