Buone notizie per animali e animalisti cinesi e non. La China Food and Drug Administration CFDA), ha rivisto la legge che rendeva obbligatori i test sugli animali per tutti i prodotti cosmetici in vendita all’interno della muraglia. Sebbene la nuova legge in vigore dal 30 giugno, vieti i test animali solo per determinate categorie di prodotti cosmetici generici (tra cui shampoo, smalti per le unghie, saponi, profumi e prodotti per la pelle) made in China – escludendo così i prodotti importati e articoli considerati speciali come tinture per capelli, deodoranti e creme solari – la CFDA ha dichiarato che una volta che il nuovo sistema di controlli andrà a regime, il veto alla sperimentazione animale potrà essere totale, facendo così della Cina il più grande mercato cruelty free al mondo.
E’ ipotizzabile che scene di giubilo per la novità legislativa si siano registrate non tanto tra i 300,000 conigli, cavie, topolini, maiali e altri animali che la Human Society International stima ogni anno vengano usati come tester nei laboratori cinesi, bensì tra le aziende cosmetiche straniere impegnate a scalfire il primato delle brand coreane e asiatiche in genere, da sempre più vicine alle esigenze del pubblico cinese e al portafoglio. La rigida legislazione cinese in materia ha infatti fino ad ora rappresentato un fattore discriminante, ponendole il settore cosmetico mondiale davanti a un diktat.
Rinunciare a cuor leggero a un mercato che nel solo 2013 ha registrato un giro di affari di 32 miliardi di dollari o tradire il proprio credo animalista, finendo nelle liste d’accusa di organizzazioni potentissime come la PETA? Dilemmi da manuale di Business Ethics” (la disciplina che si occupa di valutare le scelte etiche nei processi decisionali di natura economica) e che ogni azienda occidentale ha cercato di gestire a proprio modo. I duri e puri, ovvero le brand pilastro dell’orgoglio animal friendly come Lush, Body Shop (acquistata dal gruppo L’Oreal non proprio allineato su scelte animaliste) Nature’s Gate, Paul Mitchell e Revlon hanno messo da parte i sogni di gloria cinesi.
C’è chi è uscita dal mercato in aperta polemica, chi non c’è nemmeno entrata- non perdendo occasione per farlo notare al pubblico – e chi come Body Shop si è materializzata di recente sugli scaffali dei duty free di alcuni scali cinesi, facendo leva sulla diversa legislazione che regola le vendite aeroportuali ma che va detto prevede possibili controlli random da parte delle autorità cinesi, testaggio sugli animali compreso.
Nomi noti come Avon, Esteé Lauder e May Kay, hanno invece fatto leva su artifizi retorici per giustificare la propria presenza sul mercato cinese. “I test sono demandati all’autorità cinese e non rientrano tra le responsabilità dirette dell’azienda”, hanno fatto notare. Altri ancora sela sono gestita davvero male. Il caso di Urban Decay, brand californiana da sempre molto vicina ai diritti delle donne e degli animali (si professa tutt’ora vegana) è emblematico. In una lettera del giugno del 2012, l’azienda spiegava al proprio pubblico la scelta controcorrente di entrare con i propri prodotti sul mercato cinese con il seguente ragionamento: “se non lo faremo noi, lo faranno degli altri meno responsabili di noi” e si appellava “alla necessità di farsi agenti del cambiamento dall’interno”.
Un mese esatto dopo l’annuncio, UD si rimangiava le parole e dichiarava di aver rinunciato al mercato cinese e nello stesso anno veniva venduta al gruppo francese l’Oréal che, benché primo finanziatore delle ricerche sui test alternativi, continua ad usare quelli sugli animali. Aziende e strategie a parte, alle spalle della svolta di Pechino, vi sono una serie di fenomeni concomitanti. Il crescere e diffondersi di una coscienza animalista tra la popolazione cinese e che va messa in correlazione con l’incremento del benessere nel paese.
A questo si aggiunge l’impegno profuso da alcuni personaggi pubblici cinesi a favore di cause ambientaliste (vedi Yao Ming e la sua crociata contro la zuppa di squalo). E poi da non dimenticare l’azione silenziosa ma costante della lobby internazionale animalista e di Organizzazioni come PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) e Human Society International che da anni esercitano una moral suasion sul governo cinese, sostenute da un’opinione pubblica internazionale spesso ancora convinta che la carne di cane sia un piatto quotidiano della cultura culinaria cinese.
Alla pratica dei test sugli animali, considerata ormai obsoleta e crudele in gran parte del mondo (America esclusa), si sostituiranno ora test alternativi scientificamente validati e considerati anche più sicuri di quelli animali, quali ad esempio i test in vitro che permettono di individuare eventuali effetti, e che spesso sono seguiti da test in vivo su volontari umani sotto stretto controllo medico o quelli sulle staminali, in cui la Cina è all’avanguardia.
*Nicoletta Ferro si è occupata delle dinamiche politiche e aziendali legate alla sostenibilità, prima come senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei a Milano, in seguito per 7 anni da Shanghai. Oggi è ricercatrice presso il CRIOS (Center for Research in Innovation, Organization and Strategy) dell’Università Bocconi e responsabile dello sviluppo asiatico di GOLDEN (Global Organizational Learning and Development Network) for sustainability, un network di ricerca globale sui temi della sostenibilità.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.