La nuova rubrica di China Files (ogni due settimane, al mercoledì) è dedicata alla sostenibilità economica della locomotiva cinese. Nella sua perenne sete di energia, la Cina non riesce ancora a rendersi indipendente da quello che è ormai diventato un pesante fardello sia economico sia ambientale: la dipendenza dal carbone. E più la domanda di energia cresce, in corrispondenza dell’aumento del reddito della classe media e del processo di urbanizzazione che entro il 2035 porterà il 70 per cento della popolazione cinese ad abitare in città, più la Cina si muove su terreni di esplorazione nuovi con l’obiettivo di diversificare le componenti del proprio mix energetico.
La fame di energia è ancora tanta e i rubinetti a cui attingere limitati. In questa direzione vanno gli ingenti investimenti nelle energie rinnovabili che nei piani dovrebbero soddisfare più del 10 per cento dei consumi di energia primaria entro il 2015, un obiettivo che salirà al 15 per cento entro il 2020. Ma solare, eolico ed ideoelettrico, che guidano il fronte delle rinnovabili cinesi non possono rappresentare alternative definitive a una risorsa come il carbone.
Non hanno infatti, il potenziale né in termini di costi né di facilità di reperimento per sostituire il carbone che, la rivoluzione dello shale gas americana, ha reso meno caro di prima. La Cina quindi non prevede di trovare un sostituto valido al carbone che resterà la fonte di energia dominante per l’economia almeno per i prossimi 10-15 anni. Il nucleare, il cui sviluppo è rallentato dopo il disastro di Fukushima, potrebbe svolgere un ruolo importante ma la Cina è ancora in uno stadio iniziale e l’energia prodotta dalle centrali copre solo un’infinitesima parte del fabbisogno energetico nazionale pari all’1,8 per cento.
In questo scenario si colloca, l’accordo sul gas appena siglato con la Russia di Putin, e che segna il definitivo affermarsi della Cina da follower a player di primo piano nel risiko energetico mondiale, riportando l’attenzione dei media su quello che rischia di diventare gas esilarante per via dei suoi effetti euforizzanti che sta avendo sul mondo politico e imprenditoriale cinese.
Si tratta del ben noto gas di scisto (shale gas), gli idrocarburi intrappolati nelle rocce in profondità ed estratti attraverso due distinte fasi : la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica(fracking). Studi di settore, hanno stimato che la Cina avrebbe riserve onshore di shale gas fino a 134.420 miliardi m3 con 25.080 miliardi di m3 tecnicamente recuperabili, superiori del 68 per cento rispetto alle reserve americane. Detto fatto gli incentivi cinesi per lo shale hanno superato nell’ultimo anno quelli stanziati dal governo americano e Sinopec, che con l’altro gigante del petrolio cinese CNPC controlla il 75 per cento dei shale fields in Cina, ha affermato che raggiungerà gli obiettivi prefissati dal piano energetico nel primo campo estrattivo cinese di Fuling in Sichuan.
In più per incentivare l’entrata di nuovi attori la China’s National Energy Administration, ha confermato che le pipeline di gas sono aperte ai piccoli operatori privati, sul modello americano. Il resto l’ha fatto il sempre vivace scenario politico cinese che di recente ha visto perdere quotazioni ai vertici di CNPC, da sempre poco interessata ad incentivare le fonti di gas non convenzionali e ostile alle attività di Sinopec relative allo shale gas. Senza ostacoli a sbarrare a strada lo shale gas sembra essere destinato a un grande futuro che in linea teorica si ammanta anche dell’ormai fondamentale etichetta sostenibile.
Fatto vero giacché lo shale gas, presenta un contenuto di biossido di carbonio di circa la metà del carbone, ma che non fornisce però la “big picture” del fenomeno. A darcela ci pensano gli americani, che in due documentari successivi “Gasland I e II (uno candidato all’Oscar e il secondo presentato al Tribeca Film festival nel 2013), rivelano gli effetti immediati del fracking, producendo delle previsioni catastrofiche su quelli a lungo termine. Terremoti, dispersione di gas nell’atmosfera, inquinamento della falda acquifera sono solo alcuni tra i side effect della perforazione idraulica.
La situazione in Cina è aggravata poi dalla profondità dei giacimenti tipici delle caratteristiche morfologiche del suolo cinese, che obbligano operazioni a 2500 3000 metri di profondità e dal fatto che molti dei possibili giacimenti si trovano già in zone a rischio idrico. Con i dati che si hanno alla mano circa le problematiche di impatto ambientale e conoscendo le difficoltà cinesi nello stabilire controlli ed implementare regolamentazioni di ordine ambientale, c’è forse da augurarsi che la folgorazione per lo shale sia solo momentanea.o che duri il tempo di una risata al gas esilarante.
*Nicoletta Ferro si è occupata delle dinamiche politiche e aziendali legate alla sostenibilità, prima come senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei a Milano, in seguito per 7 anni da Shanghai. Oggi è ricercatrice presso il CRIOS (Center for Research in Innovation, Organization and Strategy) dell’Università Bocconi e responsabile dello sviluppo asiatico di GOLDEN (Global Organizational Learning and Development Network) for sustainability, un network di ricerca globale sui temi della sostenibilità.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.