Il settore turistico in Asia è da sempre opportunità e maledizione, crescita e decrescita. Anche il turismo cerca di tornare in salute?
Le notizie vanno e vengono sul web: a partire da novembre potrebbero riaprire Cambogia e Thailandia, il Nepal ha già permesso l’arrivo dei turisti muniti di pass vaccinale. In Thailandia è attivo un corridoio turistico sull’isola di Phuket dallo scorso luglio, mentre iniziano ad abbassarsi i criteri all’ingresso e ad allargarsi la platea dei paesi di partenza considerati “sicuri”. Anche Bali, meta numero uno dell’Indonesia, punta a riaprire ai paesi con tassi di contagio contenuti. Alcune speculazioni vedono i governi creare questi elenchi in base a una scommessa sui “clienti di fiducia”, anziché la vera situazione sanitaria del paese di provenienza. Se fuori il mondo non gira più come prima, le informazioni su possibili novità sui rientri affollano i siti di ambasciate e blog di operatori turistici. La pandemia da Covid19 ha cambiato il Sudest asiatico, per non dire che ne ha stravolto uno dei suoi settori più appetibili: il turismo. Eldorado per gli investitori (soprattutto cinesi) e meta ambita dai viaggiatori che cercano la diversità a buon prezzo, non c’è posto al mondo che goda di tanta fama come la regione che si estende dal mercato di Hanoi fino alle più remote spiagge delle isole nell’Oceano Pacifico.
Fuor di retorica, il settore turistico nel Sudest asiatico ha da tempo un problema di sostenibilità ambientale e sociale che va oltre la crisi sanitaria. Prima dell’arrivo della pandemia era considerata l’area del mondo con il più alto – e preoccupante – tasso di crescita del turismo di massa, con un boom degli investimenti infrastrutturali e della speculazione finanziaria che sembravano (e sembrano ancora) un trend dalla crescita infinita. La media stimata dei turisti che viaggiano nella regione è di 129 milioni di ingressi all’anno, per un introito che si aggira intorno ai 329,5 miliardi di dollari, il 18% del Pil dell’intero gruppo Asean. Secondo gli ultimi dati del World Economic Forum risalenti al 2019, il Sudest asiatico è la regione che più dipende dalle entrate del turismo internazionale, pur presentando stadi di sviluppo diversi a seconda degli investimenti governativi per migliorare la qualità dei sistemi di accoglienza. In generale, invece, il ranking dei servizi sanitari medio dell’area veniva identificato come “mediocre”, segnale che potrebbe rendere la ripresa più difficile del previsto e spiega alcune problematiche nella gestione dei contagi.
Sostenibilità e turismo, due questioni multisettoriali
Gli impatti ambientali del turismo sono noti da anni, e hanno a che vedere con un mix di inquinamento ed eccessiva presenza umana laddove gli ecosistemi erano pressoché intaccati dalla modernità. Nella baia di Halong, patrimonio Unesco in Vietnam, l’impatto del turismo di massa si è tradotto in inquinamento e rapido deterioramento della biodiversità. A causarli, in particolare, la quasi totale assenza di sistemi di gestione delle acque reflue dove fino a pochi anni prima abitavano alcune decine di famiglie. Nel 2018, il governo delle Filippine ha chiesto la chiusura dell’isola di Boracay per mesi, in modo da permettere lo smaltimento di migliaia di tonnellate di rifiuti provocati dalla stagione turistica. Degrado ambientale e antropizzazione portano, inoltre, alla scomparsa delle specie vegetali e animali. Gli investimenti nel mattone si estendono sempre di più verso le aree protette, spesso con la complicità e il profitto dei funzionari locali. La Cambogia è uno dei paesi dove questo fenomeno è più evidente, soprattutto a causa degli accordi che i costruttori cinesi hanno saputo strappare al governo di Hun Sen.
Anche l’impatto sociale del turismo di massa vuole la sua parte in questo angolo di pianeta. In una regione dove il 68% dei lavoratori non gode di contratti e tutele, il collasso del settore turistico dovuto alla pandemia ha aggravato le già magre entrate dei dipendenti, mentre le aziende più grandi cercano di sopravvivere grazie ai risparmi e agli aiuti statali. Un fenomeno che prende tratti drammatici se spostiamo lo sguardo ancora più a est, verso gli atolli del Pacifico, dove le condizioni di sottosviluppo sono tra le più critiche al mondo. Nelle sole isole Cook, dove il turismo rappresenta l’87% del Pil nazionale, l’intera economia ha subito un freno a causa della pandemia: per la sua natura trasversale, infatti, il turismo crea un mercato anche per l’agricoltura e la manifattura, o diventa un’entrata extra durante l’anno. Nelle Figi circa il 50% dei lavoratori del turismo ha perso il lavoro, così come sono stati penalizzati i lavoratori migranti stagionali che si spostavano per ottenere il massimo guadagno durante i picchi di ingressi. Non meno grave rimane il problema della prostituzione minorile (e non): le aggravate condizioni economiche delle famiglie e la chiusura delle scuole hanno peggiorato, anziché ridotto, il fenomeno.
Green recovery: la complessità oltre le etichette
La pandemia da Covid19 può portare a cambiamenti strutturali e trasformativi profondi e a lungo termine sugli aspetti socioeconomici del turismo. Quello a cui si è assistito negli ultimi mesi è il più grande calo delle entrate del settore turistico nella storia dei paesi asiatici, con un crollo del 78% per 120 milioni di posti di lavoro in meno. Sebbene la pandemia venga spesso usata come richiamo al cambiamento in un settore dove non mancano distorsioni, nessuna crisi a oggi ha veramente avuto un impatto tale da cambiare lo status quo nei confronti di ambiente e lavoratori legati all’industria turistica. In questo contesto, l’ecoturismo diventa sempre più spesso una chiave di lettura che governi, imprenditori e organizzazioni internazionali cercano di utilizzare quando parlano di ripresa post-Covid nel Sudest asiatico. In questi termini, si intende ecoturismo come un modello di villeggiatura con un occhio particolare alla natura e alla tutela della stessa: un esempio è la visita a parchi naturali che si appoggia a strutture con minimo impatto ambientale per il pernottamento. La Banca Mondiale ha già lanciato un programma di aiuti dal valore di 54 milioni di dollari per sostenere la creazione di 16 siti dedicati all’ecoturismo in Cambogia, mentre gli investimenti Esg in tutta la regione stanno vivendo una stagione particolarmente vivace.
Il turismo ha una dimensione multisettoriale, per questo motivo una sua nuova versione più attenta ad ambiente e società non si potrà costruire in poco tempo e con i soli incentivi economici. Le aree più fragili della regione hanno da tempo dimostrato di non aver avuto i mezzi per sostenere troppi turisti, spesso per carenze strutturali come fognature o sistemi di raccolta rifiuti. Laddove il turismo internazionale crea enormi introiti si sono create dipendenze difficili da estirpare lungo tutta la catena di approvvigionamento di cibo, energia e materie prime. Allo stesso tempo, le nazioni continuano a competere al ribasso per attrarre i capitali stranieri, giocando su uno dei vantaggi competitivi che da sempre ha premiato le economie del Sudest asiatico. La pandemia ha portato un momento di riflessione, ma anche di enorme retorica. Come dice un detto buddhista “Oggi è meglio di due domani”, ma iniziare da capo con un’economia a pezzi sarà la sfida più grande che la regione si troverà ad affrontare dalla crisi del 1997.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.