In Asia si continua a morire di inquinamento, e spesso nel giro di pochi giorni anziché anni. Non sono però solo gli esseri umani a pagare le conseguenze dell’espansione illimitata delle attività produttive, mentre in Cina si discute di “revitalizzazione” rurale con toni meno ottimisti rispetto alla retorica tradizionale del Partito. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia ed emergenza climatica in Asia
Nel mondo si continua a morire di inquinamento ambientale. Ci troviamo a Karachi, la città più popolosa del Pakistan e la dodicesima più grande al mondo. Più precisamente, la zona è quella di Ali Muhammad Goth, villaggio povero e costellato di fabbriche che non dovrebbero trovarsi lì. Poi, verso la fine di gennaio, sono arrivate le morti, improvvise: in sedici giorni le autorità locali hanno registrato almeno diciannove decessi “misteriosi” tra i residenti. Si va da una donna di trent’anni a un bambino di un anno e mezzo, tutti avevano contratto delle malattie polmonari interstiziali. “Hanno sviluppato tosse e febbre per circa tre giorni, hanno smesso di mangiare, hanno avuto attacchi simili all’asma e poi sono morti”, ha spiegato la dottoressa Summaiya Tariq.
Due settimane dopo sono iniziate le autopsie per indagarne le cause, tra cui sarebbero emersi anche dei contagi di meningite. Nel frattempo, le denunce dei residenti hanno spinto la Polizia a intervenire immediatamente con la chiusura di alcuni degli impianti circostanti. La causa risiederebbe nei fumi prodotti dalle fabbriche (ufficialmente registrate come semplici “magazzini”), nessuna delle quali – si è poi confermato con una perizia – operava con i relativi protocolli di sicurezza. Ad Ali Muhammad Goth sono localizzate in poche centinaia di metri quadri circa quaranta fabbriche che si occupano di produrre talco, riciclare plastica e minerale di ferro, produrre olio nuovo dall’olio di motore esausto. I fumi prodotti da queste attività avrebbero un impatto significativo sulla salute della comunità residente, quasi mille persone che vivono a pochi passi dalle strutture. Ma non solo: al di fuori dell’impatto diretto che i cittadini hanno citato agli investigatori è inevitabile che gli scarti della produzione vengano smaltiti nell’ambiente. Anche qui nessuna novità: l’economia dei rifiuti condotta senza alcuna precauzione è una delle attività più comuni tra i cosiddetti “lavoratori poveri”, persone nel sud globale che pur avendo un impiego sono confinate ai margini dell’economia e della società.
Karachi è, di per sé, una delle città più contaminate del Pakistan. Qui l’inquinamento atmosferico supera il limite definito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di venti volte. Ma nel caso del periodo in questione, ha rilevato la Svizzera IQAir, il superamento del livello di rischio era ottanta volte maggiore. Il caso delle morti di massa di Ali Muhammad Goth è avvenuto nella periferia della città dove si produce il 20% dell’output industriale nazionale e si concentra il 60% dei passaggi commerciali via mare dell’Asia meridionale. Ma, appunto, si parla di periferia: un non-luogo dove non arriva il controllo delle autorità.
Sull’altro piatto della bilancia la situazione è molto lontana da quello che ci si aspetterebbe da un polo economico di queste dimensioni. Il Safe City Index dell’Economist ha posizionato Karachi al penultimo posto della classifica, indicando tra i problemi quello della scarsa salubrità ambientale e il basso livello di sicurezza delle infrastrutture. Il 60% della popolazione non ha ancora accesso alle fognature e l’aspettativa di vita è scesa di 4,3 anni a causa delle condizioni ambientali. Ciò contribuisce a un grave stato di insicurezza sanitaria ed economica che confina il 70% dei residenti in stato di povertà.
Il cambiamento climatica inasprisce la relazione tra uomo e fauna selvatica
Lo scorso 27 febbraio la rivista Nature ha pubblicato uno studio sulle interazioni tra uomo e fauna selvatica nel mondo. Il risultato della ricerca, che guarda soprattutto ad aree del mondo come India e Sud-Est asiatico, non è confortante. Già da tempo l’espansione delle attività umane ha generato un conflitto con la fauna locale che rappresenta spesso una minaccia concreta per la sicurezza personale e fattore scatenante di epidemie e contaminazioni. Oggi la rottura di questo equilibrio sta accelerando, complice la scarsità di risorse e i fenomeni climatici estremi. L’emergenza climatica, si legge nel paper, “è un amplificatore critico ma sottovalutato del conflitto uomo-fauna selvatica, poiché aggrava la scarsità di risorse, altera i comportamenti e la distribuzione di umani e animali, aumentando le occasioni di incontro”.
Il documento cita, per esempio, le preoccupazioni dei Maldhari, un’etnia dedita alla pastorizia nomade nella zona della foresta di Gir in India. Qui risiede una delle maggiori comunità di leoni asiatici del continente, ma la vicinanza con le infrastrutture umane e una siccità sempre più frequente sta spingendo i branchi a spostarsi altrove. Solo tra il 2019 e il 2020 sono stati registrati almeno 313 decessi, spesso correlate all’avvicinamento alle aree abitate. La distruzione degli ecosistemi dovuta agli incendi è invece una delle cause dietro alle migrazioni di tigri ed elefanti a Sumatra, nell’arcipelago indonesiano. Anche qui la migrazione è pressoché impossibile data la quantità di ostacoli fisici dovuti a una sempre più estesa presenza delle attività umane anche nei luoghi più remoti.
La collisione tra uomo e fauna selvatica non avviene solo in maniera violenta, ma può trasformarsi in importanti problemi di sanità pubblica. Nelle ultime settimane le morti in massa degli animali selvatici nei pressi di alcune abitazioni nelle campagne cambogiane hanno fatto scattare l’allarme aviaria anche nei paesi circostanti. La diffusione di virus di questo tipo è inevitabilmente legata a una condizione di stress sugli ecosistemi e può derivare sia dalle migrazioni spontanee che dal traffico illecito di uccelli selvatici. Proprio nel Sud-Est asiatico si trova uno degli epicentri del commercio illegale di animali selvatici, complice la vicinanza geografica con uno dei mercati più appetibili: la Cina. Solo nel Sud-Est asiatico, riporta un’analisi di Brookings Intitution, questo tipo di commercio frutta tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari all’anno. Ma i governi hanno ancora dei meccanismi troppo deboli per contrastare il fenomeno, generalmente portato avanti dalla criminalità organizzata e facilitato dalla porosità dei confini.
La Cina e il Documento centrale n.1
Lo scorso 19 febbraio il Comitato centrale del Partito comunista cinese e il Consiglio di stato cinese hanno reso pubblico il “Documento centrale n.1”, il primo testo programmatico dell’anno che delinea alcuni degli obiettivi auspicati dalla leadership cinese. Questo documento riguarda tradizionalmente l’agricoltura e le zone rurali, dove oggi si giocano alcune sfide critiche per il futuro della Repubblica popolare. Le parole utilizzate riflettono l’approccio di Pechino alle problematiche di sottosviluppo che caratterizzano le campagne ed enfatizzano – come già anticipato dal rapporto del presidente Xi Jinping durante il 20° Congresso Pcc – il problema della sicurezza alimentare e della “modernizzazione delle campagne”.
Parlare di “revitalizzazione rurale” per la Cina significa avere “villaggi vivibili e belli”, ma anche sviluppare l’economia locale per renderla più resiliente. Nel testo si parla di “diversificare” i sistemi di approvvigionamento di cibo e garantire una maggiore qualità degli alimenti. A questo si aggiungono le direttive sull’aumento dell’acquacoltura (già nel 2018 la Fao ha stimato che il 90% degli stock ittici è sovrasfruttato e rischia l’esaurimento) e di prodotti nutrienti alternativi, come le alghe. Risuona spesso la parola “modernizzazione” intesa come una ricerca di tecnologie più avanzate per far fronte alle debolezze del comparto agricolo cinese, e non è un caso che ciò accada in un periodo dove è riemersa una profonda revisione sul tema degli ogm. In un altro punto del Documento n.1 si parla anche di “rafforzare le capacità di prevenzione e mitigazione dei disastri in agricoltura”, segnale che nonostante i buoni annunci sulla produzione agricola non si possa evitare lo spettro della crisi climatica. Solo poche settimane fa un report della China Meteorological Administration (Cma) aveva messo in guardia l’élite politica cinese sul drastico peggioramento dei fenomeni climatici estremi in Cina nel corso del 2023.
All’enfasi sullo sviluppo sostenibile nelle campagne, però, non sembra accompagnarsi lo stesso budget. Secondo un avviso del Ministero delle finanze il fondo totale per il miglioramento dell’ambiente rurale nel 2023 è di soli 2 miliardi di yuan contro i 4 miliardi di yuan dell’anno precedente.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.