Gli effetti del cambiamento climatico sono sempre più evidenti in tutto il continente asiatico, dalle metropoli alle campagne. Alcuni paesi pagano le conseguenze della crisi da decenni, altri ne stanno sperimentando solo ora le conseguenze sulla vita e gli ecosistemi. Una panoramica su tante emergenze diverse, ma con lo stesso denominatore comune
L’Asia soffoca dal caldo. E annega. E va in blackout. Sono tante le facce del cambiamento climatico, tutte con lo stesso determinatore comune: un’emergenza climatica causata dall’uomo e che proprio in alcune parti del continente ne dimostra le conseguenze più gravi. Il 2022 è solo uno degli anni dove questo messaggio inizia a circolare più ampiamente su media nazionali (non senza censure) e internazionali.
A luglio 2022 è scattato l’allarme rosso per alcune città cinesi della costa orientale, dove le temperature hanno raggiunto i 40°C. Poche settimane prima, nel subcontinente indiano, sei ondate di calore si sono susseguite con picchi record di 50°C nel nord dell’India. Brucia anche il Sudest asiatico dove, per il quarto anno consecutivo, si sono registrati livelli di siccità mai visti prima. Solo nel 2021 gli effetti dell’emergenza climatica hanno colpito oltre 57 milioni di persone in tutta l’area dell’Asia Pacifico e si stima che questo numero salirà tra i 600 milioni e un miliardo entro il 2050.
Cina, tra censura e allarmi
In Cina le alluvioni sono sempre più frequenti e devastanti. Nell’estate 2021 a Zhengzhou, nella provincia dello Henan, in soli tre giorni è caduta la stessa quantità di pioggia che si rileva in un anno intero. Decine di migliaia di persone sono state evacuate, mentre crescevano le polemiche sul ritardo dei soccorsi. Restano nella memoria le immagini delle persone intrappolate nella metropolitana, di cui quattordici sono morte annegate. L’altra faccia della crisi climatica in Cina è lo scioglimento dei ghiacciai. Il processo è talmente veloce che sta rischiando di distruggere alcune dighe, mentre la carenza di acqua in altre parti del paese sta accelerando quello che prima sembrava un progetto troppo ambizioso per essere implementato: “Far scorrere le acque da sud a nord” (南水北调 nánshuǐběidiào).
Qualche mese dopo le piogge torrenziali nello Shandong solleveranno ancora una volta i problemi strutturali della gestione dell’emergenza climatica. Al centro delle polemiche rimane la struttura dei centri urbani, insufficiente a ottenere quell’ “effetto spugna” capace di renderle resilienti agli shock idrici. Il concetto, coniato nel 2013 dal professore Yu Kongjian, racchiude una serie di misure volte non solo alla prevenzione dalle alluvioni, ma anche la gestione oculata delle risorse idriche in caso di siccità e inquinamento delle acque.
Con un tasso di urbanizzazione del 65,5%, la Cina rischia di diventare uno dei paesi più fragili ai cambiamenti climatici. Ma non è semplice tenere in equilibrio le prove sempre più evidenti della crisi e la stabilità socioeconomica auspicata dal Partito comunista cinese. Chi cerca di commemorare le vittime dell’alluvione di Zhengzhou viene ostacolato: China Digital Times riporta come non sia possibile lasciare i fiori nei pressi della metropolitana, nonostante lo stesso Consiglio di stato abbia dichiarato l’effettiva censura da parte del governo locale sui dati delle morti di quei giorni. Ciononostante, anche da Pechino si inizia a ragionare in termini ufficiali di “adattamento” al cambiamento climatico. La Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici 2035 (国家适应气候变化战略 2035 guójiā shìyìng qìhòu biànhuà zhànlüè 2035) uscita in primavera e con obiettivi che guardano al 2035, parla apertamente di rischi climatici che “non possono essere eliminati, ma bensì continueranno e si accumuleranno per un po’ anche dopo il raggiungimento degli obiettivi di neutralità carbonica.”
L’ultima ondata di caldo estremo di agosto ha portato temperature fino a 44°C, nonché un clima siccitoso che sta riducendo l’imput energetico delle grandi centrali idroelettriche. In alcuni casi i governi locali hanno chiesto la chiusura delle attività più energivore con l’intento di destinare la corrente elettrica ai settori più essenziali.
La regione del Mekong stretta tra siccità e inondazioni
Se si chiudono i rubinetti sull’Himalaya (complici le numerose dighe cinesi lungo il Mekong superiore), ecco che a pagare i danni dell’emergenza climatica saranno soprattutto i paesi del Sud-Est asiatico. In particolare, Cambogia, Vietnam, Laos, Thailandia e Myanmar rischiano di trovarsi senza la principale fonte di approvvigionamento idrico. Con enormi conseguenze per la sicurezza alimentare della regione.
Il lago cambogiano di Tonlé Sap, da cui dipende l’approvvigionamento di pesce dell’intero paese, è sempre più arido durante la stagione delle piogge. I pesci faticano sempre di più a migrare, mentre nuove specie aliene iniziano a colonizzare questi ambienti, competendo con la fauna ittica locale. Le risaie vietnamite sono sempre più povere perché le infrastrutture, le miniere di sabbia illegali e la siccità interrompono il trasporto dei sedimenti, con tutti i nutrienti che essi portano con sé. Alla siccità fa da contrappeso l’innalzamento del livello dei mari, che stravolge gli ecosistemi: l’aumento della salinità ha un effetto immediato sulle colture e sulla flora locale, tra cui le indispensabili foreste di mangrovie. Nella migliore (e più utopistica) delle ipotesi, conferma una ricerca della University of California, il 10% del delta del Mekong verrà inondato entro il 2100.
Aumentano anche i fenomeni climatici estremi che rischiano di spezzare i già fragili equilibri socioeconomici. Secondo il Global Climate Risk Index il Myanmar è il secondo paese al mondo che più sta ha subito i danni del cambiamento climatico negli ultimi venti anni. E continuerà a subirli nel lungo termine. La mancanza di meccanismi efficaci di gestione della crisi climatica, aggravata dal golpe militare, rischia di riportare la popolazione birmana a livelli di povertà mai visti prima.
Il subcontinente indiano è sempre più esposto
Non solo le ondate di calore in India: l’intera fascia del subcontinente indiano sta vivendo una delle stagioni più drammatiche degli ultimi decenni, dove alle temperature estreme si alternano fenomeni climatici sempre più distruttivi. Né è un caso chiave quello del Bangladesh, uno dei paesi più esposti alle conseguenze del cambiamento climatico. In un report della United States Agency for International Development (Usaid) viene segnalato come almeno 90 milioni di begalesi (il 56% della popolazione totale) viva in aree ad “alto rischio climatico”. A questo dato si aggiunge il sovrappopolamento delle aree urbane, un fattore che accelera l’esposizione della popolazione alle conseguenze del cambiamento climatico. Nelle città si formano le cosiddette “isole di calore” dovute alla mancanza di vegetazione, e che porta ad alzare le temperature anche di cinque gradi in più rispetto alle zone non urbanizzate. La struttura fragile delle città diventa una potenziale trappola in caso di cicloni, oggi sempre più intensi, nonché vettore ideale per la diffusione di malattie.
Lo stesso problema si replica in India, dove le temperature stanno toccando livelli record e per periodi sempre più prolungati. A questo si aggiunge la forte concentrazione di materiali inquinanti nelle acque indiane: si stima che almeno il 70% delle acque superficiali sia inadatto al consumo, mentre si prevede che entro il 2050 il paese entrerà in stato di profonda carenza idrica. Anche in Pakistan le alluvioni mettono a dura prova la struttura delle città, dove oggi si concentrano le possibilità di lavoro e di istruzione di alto livello.
L’Asia Orientale fa i conti con la crisi energetica
Sempre secondo i dati del Global Climate Risk Index il Giappone compare al quarto posto dei paesi più colpiti dal cambiamento climatico nel 2019. Il tifone Hagibis è stato il peggiore degli ultimi 60 anni, con raffiche di vento da 200 km/h e danni stimati per 12,6 miliardi di dollari. Le ondate di calore sono diventate una delle principali cause alla base della crisi energetica del paese, che non è in grado di sostenere il picco della domanda di elettricità. L’esperto di prevenzione contro i disastri naturali Tomoya Takani ha raccontato al Mainichi Shimbun che i cittadini dovranno essere sempre più preparati ai blackout, per esempio munendosi di batterie e imparando metodi alternativi per ridurre l’utilizzo dell’energia elettrica. La International Energy Agency avverte, però, come il settore energetico sia ancora classificato come un’area “a basso rischio” nel Rapporto di valutazione dei cambiamenti climatici: segnale che Tokyo deve ancora studiare il fenomeno prima di poter offrire degli strumenti efficaci per prevenire i collassi nella rete.
Negative anche le previsioni sul futuro climatico della penisola coreana. Secondo la Relazione sui cambiamenti climatici del ministero dell’Ambiente e della Korea Meteorologica Administration del 2020 emerge un dato allarmate sull’innalzamento delle temperature, superiore alla media globale. Il fenomeno sarebbe causato dalla concentrazione di anidride carbonica e metano nell’atmosfera, che porteranno la penisola a registrare periodi di calore intenso fino a 35 giorni consecutivi in un anno entro la seconda metà del secolo (oggi la media è di circa 10 giorni). Le conseguenze vanno dalla perdita di biodiversità alla riduzione delle foreste, fino a un calo della produzione di riso del 25%. Nel frattempo, gli eventi climatici estremi mettono a dura prova anche le realtà più resilienti: gli acquazzoni estivi si stanno tramutando in violente piogge torrenziali che la stessa capitale Seul non riesce più a gestire. Un quadro ancora più drammatico se si osservano le analisi relative alla Corea del Nord, dove la crisi climatica peggiorerà la già precarie condizioni di vita della popolazione. Le risorse del governo sono già oggi troppo scarse per prevenire il collasso delle infrastrutture e potenziali incidenti su larga scala – tra cui quelli legati all’operatività dei reattori nucleari.
L’acqua acceleratore di conflitti in Asia Centrale
Se c’è un’area al mondo dove si parla sempre più spesso di “guerre dell’acqua”, questa è proprio la regione delle repubbliche centrasiatiche. Gli scontri tra forze armate kirghize e tagike del 2021 sono solo l’esempio più recente di quanto sia diventato vitale il controllo sulle risorse idriche. Il Tajikistan accusa da anni il Kirghizistan di violare ripetutamente gli accordi sulla ripartizione delle acque, oggi aggravata dall’installazione di un numero sempre maggiore di dighe. E qui entra in gioco l’Uzbekistan, che a sua volta punta il dito contro Dushanbe: tra i due paesi continua un tango dove agli ambiziosi progetti per la condivisione delle acque fa da contraltare una poco celata diffidenza nelle promesse del partner.
A partire dal 2021 la siccità è tornata a toccare livelli record in Kazakistan, dove si è registrata la peggiore carenza di acqua degli ultimi 13 anni. I funzionari kazaki hanno lanciato l’allarme sulla morte di migliaia di animali a causa del forte caldo e per la mancanza di foraggio. Di conseguenza, in alcune province kazake, il prezzo del fieno è aumentato fino al 50%. In Turkmenistan il cambiamento climatico si vede nelle tempeste di sabbia e polvere, sempre più frequenti a causa dell’avanzamento dei deserti. Il paese è tra quelli con il settore agricolo più esposto ai danni delle tempeste di sabbia (70% del totale delle terre coltivate). La dispersione di polveri nell’aria influenzerà sempre di più l’inquinamento atmosferico, imprigionando i gas nocivi nello strato più basso dell’atmosfera.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.