Il futuro green dell’Unione Europea sembra determinato a passare per l’Asia, con tutte le contraddizioni delle delocalizzazioni e delle tensioni geopolitiche che comporta. Poi una panoramica sulla questione dell’inquinamento atmosferico transfrontaliero e altre notizie dedicate ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia
Dal 14 febbraio Bruxelles ha una data per eliminare le auto a benzina e diesel dalle strade dell’Unione Europea: il 2035. Si tratta di una decisione ponderata da tempo, ma che fino a poche ore fa non aveva portato a nessun obiettivo preciso. Ed è subito polemica. Che l’abbandono delle auto a combustibili fossili sia una condanna dell’industria delle auto europea e una vittoria sicura della Cina lo hanno già detto in molti, e tempo prima dall’annuncio ufficiale del Parlamento Ue. Ma ora i dati del mercato delle auto elettriche, oggi una delle poche soluzioni immaginabili dai decisori europei, tornano alla ribalta per dimostrare il sorpasso cinese in termini di quantità e rapporto qualità-prezzo.
Pechino ha investito nei motori elettrici. Non solo: ha finanziato i progetti di produzione e ricerca di soluzioni sofisticate per le batterie di ultima generazione, ha conquistato alcuni nodi chiave lungo la catena di approvvigionamento dei metalli e delle terre rare necessari per la produzione delle tecnologie chiave. E mentre la domanda domestica risulta in lieve calo (il governo ha chiuso agli incentivi per i privati, ma sta spingendo per la conversione di tutti i mezzi pubblici e di servizio), dall’altra parte della muraglia si sta aprendo un mercato di dimensioni notevoli. Secondo i dati diffusi dall’Associazione dei produttori di auto della Repubblica popolare le vendite sono raddoppiate (+54,4%) tra il 2021 e il 2022.
A seguire questa intuizione ci sono anche le grandi multinazionali europee e statunitensi, nonostante le tensioni geopolitiche e la fase di crisi della globalizzazione durante la pandemia. Secondo gli analisti di Auto Forecast Solutions (previsioni che non tenevano in conto l’annuncio Ue) l’industria dell’automotive attirerà almeno un miliardo di miliardi di dollari dedicati allo studio e alla produzione degli Electric vehicles (Ev). E c’è chi torna a guardare alla Cina nonostante le manovre – soprattutto statunitensi – per contenere Pechino sui mercati dei chip e di altre tecnologie strategiche. Ford, per esempio, prevede di passare in gran parte alle batterie litio-ferro-fosfato (Lfp) prodotte dal gigante cinese Catl a partire dal 2026.
Dall’altra parte della bilancia, però, non c’è solo la Cina. Chi sta lasciando Pechino per avventurarsi nel Sud-Est asiatico potrà approfittare di sgravi fiscali importanti, come accade in Vietnam, ma anche di un mercato del lavoro più economico. A luglio 2022 Samsung ha investito 1,57 miliardi di dollari per aprire un impianto in Malesia dedicato alla produzione di batterie per gli Ev. Tesla ha grandi piani per l’Indonesia, che rappresenterebbe contemporaneamente un buon hub manifatturiero e un mercato delle auto in rapida crescita.
Ma cosa accadrà in questi paesi dove si produce la transizione verde europea? Un aumento delle delocalizzazioni, soprattutto nel settore manifatturiero, richiederà quantità di energia che già oggi rappresentano una sfida e un dilemma per queste economie. Davanti a un cambio di paradigma lento, minacciato dalla corsa a esportazioni e investimenti esteri, anche paesi più avanzati come la Cina dovranno fare i conti con il vecchio, affidabile, carbone. È l’allarme lanciato lo scorso 30 gennaio dal World Inequality Database, che nel report dedicato alle disuguaglianze climatiche del 2023 afferma: “Mentre alcuni paesi ad alto reddito forniscono generosi programmi di aiuti verso i paesi a basso reddito, questo sostegno potrebbe essere vanificato dalle azioni delle multinazionali con sede in quegli stessi paesi [ad alto reddito]” poiché delocalizzano “in paesi con standard ambientali inadeguati”.
Inquinamento senza confini
Occhio non vede, cuore non duole. Finché la correlazione tra inquinamento atmosferico e malattie respiratorie inizia a essere inconfutabile. Quella dell’inquinamento atmosferico è una minaccia invisibile che viene spesso associata a un determinato contesto urbano o industriale, ma in Asia non è raro che si aggiunga un’altra definizione: “transfrontaliero”. In poche parole, c’è chi inquina abbastanza a casa propria da inquinare anche altrove.
Un nuovo report pubblicato lo scorso 30 gennaio dal centro di ricerca Usa Epic China conferma e approfondisce le dinamiche dell’inquinamento transfrontaliero tra Cina e la penisola coreana. Lo studio si concentra sulla circolazione delle PM 2.5, ovvero i particolati “fini” in grado di raggiungere i polmoni e danneggiare la salute dei cittadini. La corresponsabilità della Repubblica popolare nel deterioramento della qualità dell’aria viene confermata, e da ciò prende avvio una lunga analisi sugli effetti di tale inquinamento su tassi di mortalità e spesa sanitaria. Non si tratta di una novità: da tempo Seul accusa Pechino quando nel paese scatta l’allarme inquinamento. Non solo nelle parole dei decisori, ma anche nelle iniziative dei cittadini: nel 2017 è stata lanciata una petizione online che ha raccolto oltre 270 mila firme, come riporta il Diplomat in un articolo dall’eloquente titolo “I coreani sono i primi al mondo per la loro opinione negativa verso la Cina, perché?”.
Il documento di Epic China suggerisce, però, un miglioramento: gli investimenti cinesi per la riduzione delle emissioni climalteranti stanno iniziando a influire sui tassi di inquinamento atmosferico e, di conseguenza, sulla “esportazione” del microparticolato oltre i confini cinesi. È un piccolo passo avanti, che rende ancora più evidente la necessità di trattare la questione ambientale anche come tema di politica estera. Ne sono ben consapevoli in Malaysia, dove il problema è relativo soprattutto alle pratiche di disboscamento o pulizia delle colture per debbiatura. Una pratica che ha dato un nome ben preciso al fenomeno di questo tipo di inquinamento transfrontaliero, la haze, letteralmente “foschia”. Anche al confine tra India e Pakistan l’inquinamento prodotto dalle industrie dei due paesi sta danneggiando gravemente la salute dei cittadini. Lo studio, pubblicato dalla rivista scientifica Lancet ha confermato che il problema del microparticolato non riguarda solo Nuova Delhi, bensì una lunga lista di città situate nei due maggiori paesi del Sud Asia. Il dramma di questa storia rimane l’antagonismo storico tra le due nazioni, che rischia una deriva a fronte di risorse (soprattutto idriche) sempre più scarse.
Myanmar, deforestazione e sanzioni
In un interessante articolo di opinione pubblicato su Third Pole Kate Klikis dell’Environmental Investigation Agency (Eia) fa il punto della situazione dell’industria del teak prodotto in Myanmar. Si stima che nel paese vi sia il 50% del teak mondiale, un legname pregiato e oggi a rischio di estinzione. Ciononostante, l’isolamento della Birmania e la necessità di arricchire le casse della giunta militare stanno portando a uno sfruttamento incontrollato delle risorse forestali. Il tutto con la collaborazione degli acquirenti all’estero, alcuni dei quali capaci di aggirare le sanzioni imposte dai paesi dove hanno sede le aziende clienti. In molti casi si tratta di triangolazioni tra produttori, industrie di lavorazione del legno (nell’articolo si cita il caso dei produttori di yacht) e clienti finali.
Bangkok sta affondando più velocemente del previsto
La capitale della Thailandia è uno dei luoghi più a rischio di un paese tra i più a rischio per gli effetti dei cambiamenti climatici. Non è un’iperbole, ma la denuncia di Thanawat Jarupongsakul, presidente del think tank Thailand Global Warming Academy (Tgwa). Secondo le previsioni citate dal ricercatore, Bangkok sarà sommersa dal mare entro i prossimi cento anni se non verranno effettuate delle misure di adattamento sebbene, sottolinea, anche investire nei mega-progetti di adattamento potrebbe solo infierire un altro colpo al già compromesso ecosistema locale. A contribuire all’accelerazione del degrado della costa, infatti, anche la distruzione delle foreste di mangrovie che fungevano da barriera naturale contro le infiltrazioni di acqua marina nell’entroterra.
Cina, i fenomeni climatici estremi sono in aumento
La China Meteorological Administration (Cma) prevede che nel 2023 in Cina i fenomeni climatici estremi saranno in aumento. In particolare, si legge nel rapporto pubblicato sul sito dell’istituzione, le province meridionali dovranno attrezzarsi per affrontare i blackout determinati dai picchi di energia associati all’aumento delle temperature estive. A quelle settentrionali, si chiede di fare attenzione alle alluvioni che, come dimostrano i modelli climatici studiati dalla Cma, saranno sempre più frequenti e intense. Le temperature continueranno ad aumentare, spiega il direttore del centro Jia Xiaolong, con picchi significativi nella regione degli altipiani (soprattutto tra Qinghai e Tibet) che rischiano di accelerare il ritiro dei ghiacciai e – di conseguenza – infliggere un colpo a uno dei principali bacini idrici del paese (e in generale dell’area meridionale del continente).
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.