Delusi dalla notizia che il metal mongolo dei Nine Treasures va in tour europeo senza sfiorare l’Italia (ma quando mai?) e isolati dal mondo a causa di un lavoro sul revival dello sciamanesimo nella terra di Genghis, ci è venuto in mente che questa rubrica non ha mai ospitato gli Hanggai, la band che piace a tutti e con la quale tutti dicono di essere usciti a farsi un bicchiere almeno una volta. Sinonimo di rock della Mongolia Interna, sono una band o sono già un brand? Mentre ci pensiamo, li ascoltiamo ancora una volta.
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Se vai a Ulan Bator, dove i ragazzini ascoltano solo orrido hip hop, alla domanda "oh, ma non è che c’è qualche rock band mongola imperdibile?", gli stoici e isolatissimi rockers locali ti diranno: "Certo, gli Hanggai". Peccato che la band sia figlia della diaspora che dissemina i mongoli in terre che ai bei tempi furono loro, ma che oggi stanno solidamente in mani cinesi.
Originari della Mongolia interna ma domiciliati a Pechino, gli Hanggai sono l’equivalente cinese degli U2: la band che dalla "provincia dell’Impero" conquista la metropoli e si fa mainstream attraverso il linguaggio del rock. C’è una sola – per noi notevole – differenza: non sono una palla colossale e Ilchi, il frontman e cantante, non pretende di fare il predicozzo al pianeta.
Questo pezzo è tratto dall’ultimo LP, Baifang (2014), dove gli Hanggai raggiungono forse la perfezione tecnica, senza rinunciare al groove.
Inutile dire che sono contesi da festival e concert hall di mezzo mondo, Italia esclusa. Lì, gli organizzatori di eventi ti chiedono: "Ueh, ma questi cinesi quanta gente ci portano?"