La partecipazione al vertice Nato di Madrid di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda connette la sicurezza euroatlantica a quella dell’Asia-Pacifico. Pechino mette Tokyo nel mirino, mentre il Nepal dimostra che in molti nella regione temono una nuova “guerra fredda”
Ancora non esiste una sua versione ufficiale asiatica, ma la Nato «originale» continua a espandere il suo raggio di osservazione verso quello che Washington e Tokyo amano chiamare Indo-Pacifico.
Al summit del 29 e 30 giugno a Madrid parteciperanno per la prima volta i leader di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, che a margine terranno anche un incontro quadrilaterale. Paesi fuori dal consueto campo dell’Alleanza atlantica, eppure da questa sempre più coinvolti.
IL COORDINATORE per le Comunicazioni strategiche del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha assicurato che la partecipazione al vertice dei quattro leader dell’Asia-Pacifico non rappresenta il primo passo per la creazione di «una versione asiatica della Nato».
Ma è evidente che la Cina interpreta le manovre verso Est come un sintomo della volontà americana di contenerla. «Le stesse tipologie di attacchi all’integrità territoriale e alla sovranità cui stiamo assistendo in Europa possono accadere nell’Indo-Pacifico», ha detto Kirby, connettendo l’architettura della sicurezza globale tra Europa e Asia orientale.
Il segretario generale Jens Stoltenberg ha ammesso che al summit si parlerà non solo di Russia ma anche di Cina. Finora nella concezione strategica della Nato la Cina non appare, ma a Madrid ci si attende una menzione diretta e senza precedenti delle sfide per la sicurezza poste da Pechino all’Alleanza e ai suoi partner.
NELLA PROSPETTIVA cinese si tratta della conferma di quella che definisce «mentalità da guerra fredda» degli Usa e della logica delle alleanze militari e dei «blocchi» che Xi Jinping ha condannato al summit dei Brics. Pechino è in fibrillazione soprattutto per la partecipazione dei suoi vicini asiatici.
Non tanto Australia e Nuova Zelanda, già parte di diverse piattaforme come Aukus e Five Eyes, quanto Giappone e Corea del Sud. Tokyo ha abbandonato da tempo la tradizionale cautela diplomatica e sta guidando la costruzione di un’architettura asiatica che possa sostituirsi a un ecosistema in cui la Cina è il centro di gravità permanente.
Kishida partecipa anche al vertice del G7 in Germania. Ormai definito «sesto occhio» dei Five Eyes, Tokyo ha aderito con Canberra e Wellington anche alla nuova iniziativa di cooperazione a guida americana, «Partners in the Blue Pacific».
Lanciata proprio ieri, la piattaforma è focalizzata sulle isole del Pacifico meridionale, oggetto dell’interesse della Cina promotrice di un accordo di sicurezza regionale.
NON A CASO IL GIAPPONE è finito da diverso tempo nel mirino di Pechino. Sui media di stato cinesi si susseguono da tempo durissimi editoriali e analisi sulla politica estera dell’amministrazione Kishida.
Nei giorni scorsi, una flottiglia di navi dell’Esercito popolare di liberazione ha completato la circumnavigazione completa dell’arcipelago giapponese passando anche per gli stretti strategici.
Sempre nei giorni scorsi sono passati da Hokkaido a Okinawa anche delle navi russe. Nuovo episodio dopo l’esercitazione congiunta durante il recente summit del Quad a Tokyo. Il ministro della Difesa, Nobuo Kishi, le ha definite un «accerchiamento» e «dimostrazioni di forza pericolose» per la stabilità della regione.
GOVERNO E MEDIA cinesi sono per ora più cauti nello scagliarsi contro la Corea del Sud, segnale che non dà per perse le relazioni bilaterali, nonostante il nuovo presidente conservatore Yoon Suk-yeol abbia mostrato l’intenzione di rafforzare il legame con gli Usa.
Seul è da poco entrata nel Centro di cooperazione per la sicurezza informatica della Nato e ha partecipato a un simposio alle Hawaii con rappresentanti di Giappone e Filippine per parlare di sicurezza nel Pacifico.
Ma in molti in Asia non vogliono finire schiacciati in uno scontro tra potenze. Sintomatica la vicenda del Nepal. Temendo che lo State Partnership Program proposto da Washington fosse una trappola per coinvolgerlo in un’alleanza militare anti-cinese, Kathmandu ha rifiutato l’accordo dopo un lungo dibattito interno.
IL PROGRAMMA ha ufficialmente obiettivi non militari e si concentra sulla mitigazione dei disastri. Ma in Nepal temevano che firmare avrebbe portato a conseguenze sulla sicurezza interna del paese e sui rapporti coi due grandi vicini, Cina e India.
Timori alimentati anche dalla diplomazia di Pechino. Pressato dall’opposizione, il primo ministro Sher Bahadur Deuba ha alla fine scelto di rigettare l’accordo.
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.