Tutto è cominciato, nel settembre del 2013, con la visita di Xi Jinping ad Astana (Kazakistan) e il grande disegno di una cintura economica attraverso l’Eurasia. Anzi. Tutto è cominciato quando nel dicembre 2009 è stato inaugurata la sezione kazaka del mastodontico gasdotto Asia Centrale-Cina (CAC), ancora in costruzione. O forse quando, nel 1994, l’allora Premier Li Peng passò in rassegna tutti gli “stan” -Tagikistan escluso- trascinandosi al seguito una truppa di imprenditori per promuovere lo sviluppo di “una nuova Via della Seta” a base di “infrastrutture moderne”. Quel che è certo è che la Silk Road Economic Belt non spunta all’improvviso dal cilindro pechinese, piuttosto attinge ad una serie di iniziative lanciate dalle passate amministrazioni e reinserite in una sorta di “neighborhood diplomacy” firmata Xi Jinping.
Lo scopo è molteplice: esportare la sovracapacità industriale in un momento di affossamento del mercato domestico; incrementare lo sviluppo delle province sin’ora estromesse dall’arricchimento glorioso; promuovere l’utilizzo della valuta cinese a livello internazionale; aprire nuove rotte commerciale ed energetiche slegate dalla sfera d’influenza americana. Qualcosa di molto simile a quanto proposto nell’annus horribilis della crisi finanziaria globale dall’allora vice direttore della State Administration of Taxation, Xu Shanda, in un rapporto dal titolo eloquente: “the Chinese Marshall Plan“. La sostanza è rimasta la stessa, il nome, che mal si adatta alla dottrina dell’ascesa pacifica, è stato opportunamente fatto fuori.
Dalla caduta dell’Unione Sovietica il gigante asiatico non ha lesinato gli sforzi per cercare di recuperare il tempo perduto stabilendo rapporti diretti con la regione, gestiti fino agli anni ’90 attraverso il filtro della Madre Patria. Nel 2009, il Dragone ha soppiantato la Russia diventando primo partner commerciale dell’Asia Centrale con 10 miliardi di dollari di scambi contro i 527 milioni del 1992. Di più. Ha cominciato a ridisegnare il network di infrastrutture energetiche d’epoca sovietica entrando a gamba tesa negli affari di Mosca. Controlla un quarto del petrolio kazako ed è il primo acquirente di gas turkmeno. Tiene a galla Kirghizistan e Tagikistan finanziando un terzo del debito estero di Bishkek e coprendo il 42 per cento dei conti in rosso accumulati da Dushambe.
Con la Nuova Via della Seta, il rischio per gli attori regionali è quello di precipitare dalla padella (russa) alla brace (cinese), avverte qualcuno. Ma per il momento a prevalere è la paura di rimanere tagliati fuori da un progetto che promette di creare 2,5 trilioni di dollari di nuove transazioni commerciali in dieci anni. Specie nel caso di Kirghizistan e Tagikistan, meno fortunati dei cugini centroasiatici in termini di risorse naturali da barattare in cambio di progresso. I due sono coinvolti nella costruzione della Linea D del CAC (l’ultima in cantiere), che permetterà di pompare gas turkmeno fino al Xinjiang bypassando il Kazakistan. Per molti, un’opera troppo dispendiosa e superflua, considerato che le tre pipeline già esistenti forniscono circa la metà del totale delle importazioni cinesi di gas.
“La maggior parte dei paesi di questa regione, da quando hanno raggiunto l’indipendenza fino a oggi, si sono rivelati incapaci di sostenere finanziariamente le infrastrutture (gasdotti, reti elettriche ecc..) senza un supporto esterno. Quindi quello che la Cina sta facendo non è tanto mettere le mani sulle risorse energetiche, ovvero sui giacimenti, quanto piuttosto ottenere il comando sul sistema di pipeline“, ci spiega Nadine Godehardt senior associate presso il German Institute for International and Security Affairs nonché autrice di “The Chinese Constitution of Central Asia”.
Tutte le ex repubbliche sovietiche centroasiatiche -tranne il Turkmenistan- hanno aderito in qualità di potenziali membri fondatori all’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), il nuovo istituto bancario lanciato dal Dragone per sopperire (insieme a un fondo ad hoc da 40 miliardi di dollari) al deficit infrastrutturale che affligge l’Asia. Secondo stime dell’Asian Development Bank, la spesa per riempire il gap si aggira attorno agli 8 trilioni di dollari per il periodo 2010-2020. Ed è cosa a cui i grandi enti internazionali a trazione americana da soli non saprebbero far fronte.
A buon punto con la riparazione del manto stradale (foraggiata da Pechino), la capitale kirghisa si appresta a rimodellare il proprio skyline rimpiazzando i vecchi casermoni di epoca sovietica con scintillanti centri commerciali e complessi residenziali che strizzano l’occhio alle metropoli della nuovissima Cina. La strada che collega Bishkek alla speziata “capitale meridionale” Osh scorre per 620 chilometri tra cime innevate, laghi turchesi e pianure lussureggianti, tagliando il Kirghizistan da nord a sud per buone dodici ore di macchina. Alternative terrestri ancora non ce ne sono, ma è dal 2013 che Pechino sta lavorando per fornirne una.
Appena pochi giorni fa, la China Exim Bank ha concesso a Bishkek una seconda tranche da circa 300 milioni di dollari per la costruzione di una nuova autostrada Nord-Sud, che una volta pronta “faciliterà il trasporto di merci cinesi e materiali verso il Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e i paesi limitrofi fino addirittura all’Europa“, scriveva tempo fa la kirghisa 24kg News Agency. Un piccolo balzo in avanti per l’ex repubblica sovietica che, combattuta in un lacerante “vorrei ma non posso”, guarda da lontano la rivoluzione su rotaia portata avanti dal Kazakistan. Da oltre un decennio, Cina e Uzbekistan spingono per la costruzione di una linea ferroviaria che colleghi Kashgar ad Andijan, (nella valle di Fergana lato uzbeko) passando per il Kirghizistan meridionale. Ma l’instabilità interna, i timori di frizioni con l’etnia uzbeka, e il terrore di rimanere schiacciata tra due partner incombenti hanno finora frenato il progetto. E non solo quello.
Dall’indipendenza ad oggi, il Kirghizistan è passato attraverso una rivoluzione colorata, un colpo di Stato e quattro presidenti. Uno più corrotto dell’altro. Il pericolo di una colonizzazione cinese è stato (ed è) sovente imbracciato dall’opposizione politica per contestare l’amministrazione di turno, accusata di svendere il paese al gigante della porta accanto. Come nel caso della cessione di 125mila ettari di terreni (“eredità sacra degli antenati”) nell’ambito della ridefinizione dei confini post-sovietici che nel 2002 scatenò una levata di scudi contro l’allora presidente Askar Akayev. Voci di tensioni tra locali e lavoratori cinesi, specie presso i siti in costruzione e nei piccoli centri di provincia, trovano periodicamente spazio sui media russi e cinesi; meno su quelli locali.
Nel 2012, 250 dipendenti della cinese Superb Pacific Ltd sono stati evacuati dal sito minerario di Taldy-Bulak Levoberezhnyi, nella provincia settentrionale di Chui, in seguito a una rissa di massa tra locali e nuovi arrivati, apparentemente scatenata da “licenziamenti illegali” e un management non conforme alle norme ambientali. In risposta, il capo della Camera di Commercio cinese in Kirghizistan, Li Deming, sulle colonne del Global Times ha spiccato una dura condanna contro la classe politica corrotta: “La resistenza della gente del posto, solitamente infiammata da partiti d’opposizione, intrappola molte aziende straniere costrette a lavorare in questo paese in una situazione di instabilità e rischio. Se il governo kirghiso non sarà in grado di risolvere i propri problemi, ci aspettiamo nuovi esiti indesiderati per i progetti stranieri“.
Invero, le rimostranze popolari non sono una prerogativa cinese. Lo sa bene la canadese Centerra proprietaria della miniera d’oro di Kumtor, sito che conta per il 12 per cento del Pil del Kirghizistan, per circa la metà del suo export ed è al centro di un’annosa polemica costata recentemente le dimissioni a Djoomart Otorbaev, quarto Primo Ministro a lasciare l’incarico dal 2010. Non è escluso che saranno proprio le dinamiche intestine -più che una presunta “sinofobia”- a pesare sul ruolo ricoperto da Bishkek nel sogno eurasiatico di Xi Jinping. Sopratutto considerando che la regione offre una serie di alternative “autocratiche” meno esposte a fastidiosi capovolgimenti politici. Da una prospettiva cinese, la presenza di “uomini forti” al potere rende Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan dei partner più affidabili.
A fine maggio, Pechino ha reso nota l’istituzione di un fondo da 16 miliardi di dollari destinato allo sviluppo del settore minerario lungo la nuova Via della Seta, di cui Shandong Gold Group e Shaanxi Gold Group deterranno quote del 35 e 25 per cento. Circa una sessantina le Nazioni coinvolte in quello che sembra essere un progetto volto a facilitare l’acquisto di oro da parte delle banche centrali dei paesi membri. I dettagli, tuttavia, sono ancora oscuri.
“Non è ben chiaro se Pechino abbia intenzione di portare avanti lo sviluppo di un maggior numero di miniere nella regione -cosa che sta già facendo, ma con difficoltà, in posti come il Kirghizistan. O se semplicemente voglia incoraggiare le Nazioni della regione a passare dalle riserve in dollari all’acquisto di oro estratto dalla Cina, in uno sforzo volto da una parte a diminuire il ruolo del dollaro come valuta di riserva, dall’altro a vendere parte del suo surplus ora che l’economia cinese rallenta“, ci spiega David Trilling, editor di EurasiaNet e corrispondente dall’Asia Centrale per l’Economist. Ad ogni modo, dal momento che la Cina non solo è il primo produttore al mondo del prezioso metallo, ma anche il primo consumatore ed importatore, a naso il progetto dovrebbe solleticare le fantasie di Bishkek.
“L’oro è una parte fondamentale dell’economia del Kirghizistan, che esporta per lo più verso la Svizzera, il Kazakistan e la Russia. Solo all’incirca il 4 per cento finisce in Cina,” ci dice Katie Putz, che copre l’Asia Centrale per il megazine The Diplomat, “ma se e quando aumenterà la produzione, sarà proprio l’oro a trainare l’export kirghiso verso est“. Anche se secondo Ryskeldi Satke, freelance contributor per diversi media outlet e istituti di ricerca, “dato il suo scarso peso politico, Bishkek normalmente non ha voce in capitolo in questo genere di progetti. Il Kazakistan potrebbe finire per essere strettamente associato alla nuova iniziativa più di tutti gli altri stati della regione.” “Stan” avvisato mezzo salvato.
[Sulla Via della Seta – terza parte]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.