Se soltanto il Presidente Xi Jinping sapesse, forse rotolerebbe qualche testa. D’altronde, come recita un vecchio detto, le montagne sono alte e l’imperatore è lontano. Qui, dove Cina e Kirghizistan s’incontrano, l’occhio vigile dell’anticorruzione fatica ad arrivare. E all’intrepido viaggiatore che voglia oltrepassare il confine sino-kirghiso attraverso il passo di Irkeshtam (quello più “agevole” e meridionale) attendono due posti di frontiera, altrettanti check point e circa 150 chilometri (tra autostop e taxi ufficiali) solo per cambiare lato. Il traguardo finale, per parte cinese, è un’imponente struttura con ambizioni da terminal aeroportuale, bandiera pentastellata al vento e nessuno ad accoglierti. Dei funzionari nemmeno l’ombra: solo la foto affissa all’entrata, nome e appartenenza etnica. “Ma qui è sempre così?!” chiediamo dopo un’ora abbondante di attesa. “A volte…” risponde un kirghiso con passaporto cinese che quell’odissea sembra viverla quotidianamente senza il minimo cenno di fastidio.
Ulugqat, regione autonoma dello Xinjiang, circa 90 chilometri a ovest di Kashgar, non sembra avvertire il contraccolpo delle frequenti fiammate di violenza associate dalle autorità locali alle istanze separatiste del Tukestan Orientale. Né sembra particolarmente ansiosa di giocare la sua parte nel Sogno Cinese di una rinascita nazionale. Nei piani di Pechino, quell’avamposto occidentale dovrebbe diventare il centro propulsore della “Go West Strategy“, una politica di rivalutazione delle province interne mirata a ridistribuire la crescita economica trainata fino a oggi dalle regioni costiere, quelle più protese verso i mercati sviluppati e vere beneficiarie delle riforme anni ’80. Se al tempo della “fabbrica del mondo” a girare a pieno regime era sopratutto il Delta del Fiume delle Perle, nell’era della “nuova normalità” lo sviluppo viene ridistribuito verso il più arretrato e selvaggio ovest, secondo la convinzione che progresso e “armonia sociale” procedano di pari passo. Il focus si sposta sulle frontiere terrestri, storicamente determinanti per la stabilità del Celeste Impero minacciato dai barbari delle steppe; crocevia di lucrose rotte commerciale che oltre un millennio fa spinsero periodicamente le dinastie cinesi a lambire l’Asia Centrale.
In rodaggio dalla fine degli anni ’90, il progetto (almeno nella sua forma originaria) ha iniziato a scricchiolare nel momento in cui il rallentamento dell’economia nazionale -scesa al 7% nel primo trimestre 2015- ha portato alla luce l’incapacità della Cina costiera e arricchita di sostenere anche la ripresa delle aree più in difficoltà. E’ qui che entrano in gioco i vicini a ovest della Grande Muraglia. Pechino ha già in cantiere un piano B: disegnare nuova connettività panasiatica al fine di stimolare gli interscambi commerciali e culturali attraverso l’intera regione. Si parla di hardware (nuove strade, condotte energetiche, ferrovie), ma anche di software (centri di cultura, libera circolazione di idee e know-how). Una strategia rigorosamente “win-win” che, tuttavia, da un punto di vista geostrategico finirebbe per restituire alla Cina -una potenza tradizionalmente terrestre più che marittima- il ruolo di Regno di Mezzo strappatole nell’800 con l’imposizione dei trattati ineguali. Con la differenza che stavolta Pechino finirà per fungere da centro nevralgico non più soltanto del continente Asia, bensì di un Impero Afro-Eurasiatico, ci spiega David Gosset, direttore dell’Academia Sinica Eropaea.
Il progetto noto come One Belt, One Road (yi dai yi lu) coinvolgerà un’area rappresentante il 55 per cento del Pil mondiale, il 70 per cento della popolazione globale e il 75 per cento delle riserve energetiche. Arricchita di una rotta marittima che arriverà a toccare le sponde africane, la Nuova Via della Seta ha, tuttavia, il suo baricentro nel “cuore dell’Asia”. Come sottolinea Chen Gong, chief researcher di Anbound Consulting, il progetto agli esordi presentava un unico ramo terrestre (xin sichou zhi lu), tutto proiettato verso l’Asia Centrale per il bene dello Xinjiang e dei paesi limitrofi, particolarmente vicini al Far West cinese per religione, lingua, usi e costumi.
Il Dragone condivide con tre delle cinque repubbliche centroasiatiche (Kazakistan, Tajikistan e Kirghizistan) 2800 chilometri di confine. Un confine che ha subito modifiche nel momento in cui, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, i neo-Stati si sono ritrovati a ereditare i contenziosi territoriali pendenti tra la Russia zarista e l’impero dei Qing, l’ultima dinastia cinese. Le dispute si sono definitivamente concluse nel 2011 lasciando nelle mani del gigante asiatico soltanto una minima parte delle terre rivendicate: 3,5 per cento, 22 per cento e 32 per cento di quanto chiesto inizialmente a Tagikistan, Kazakistan e Kirghizistan. Un’insolita concessione -si dice- meditata da Pechino in cambio di sostegno da parte dei governi locali nella gestione dell’etnia uigura, minoranza turcofona e musulmana residente nello Xinjiang, che fin dall’800 impensierisce Pechino per via delle sue aspirazione indipendentiste.
Circa 350mila uiguri vivono sparsi per l’Asia Centrale, sopratutto in Kazakistan e Kirghizistan, paese quest’ultimo dove contano per l’1 per cento dei 5,5 milioni di abitanti. Allo stesso tempo, il Xinjiang ospita 1,2 milioni di kazaki, 162mila kirghizi, 39mila tagichi, 13mila uzbeki, e 4600 tartari, etnie storicamente esposte alla fascinazione esercitata dall’idea “di una nazione turca dai Balcani alla Grande Muraglia”. Tra il ’92 e il ’93 una serie di attacchi dinamitardi hanno colpito diverse aree della regione autonoma spostando i riflettori sull’East Turkestan Liberation Organization (ETLO), movimento secessionista con base in Kazakistan che millanta 50mila seguaci e non disdegna “l’utilizzo estremo delle armi” pur di “resistere al genocidio culturale” perpetrato da Pechino attraverso una sinizzazione a tappe forzate. A differenza dell’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), che intrattenendo rapporti con Al-Qaeda e l’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) per un breve periodo ha fatto la sua comparsa sulla blacklist americana, l’ETLO non è mai stata riconosciuta a livello internazionale come organizzazione terroristica, eccezion fatta per i governi di Astana e Bishkek.
Nonostante durante il periodo sovietico il Kirghizistan si sia dimostrato un rifugio piuttosto sicuro per gli uiguri, con la raggiunta indipendenza nel 1991, la crescente sudditanza economica al Dragone si è tradotta in una maggior insofferenza nei confronti della minoranza. Al contempo, il timore che i fatti centroasiatici potessero ravvivare le aspirazione separatiste dello Xinjiang ha alzato il livello di guardia nelle segrete stanze di Zhongnanhai. Secondo il World Uyghur Congress, organizzazione con base a Monaco di dubbia imparzialità, sarebbero 50 gli uiguri riconsegnati da Bishkek a Pechino tra il 2001 e il 2011, mentre a fine maggio il Parlamento del Tagikistan ha approvato all’unanimità un accordo bilaterale con la Cina che consente di estradare nella nazione di origine i detenuti rinchiusi nelle carceri dei due paesi. Stando a fonti di EurasiaNet, la stretta sulla comunità uigura immigrata si farebbe più serrata a ridosso dei vertici SCO (Shanghai Cooperation Organisation), la “Nato asiatica” a guida russo-cinese (di cui fanno parte tutti gli “stan” tranne il Turkmenistan) che impone ai suoi membri di adeguare misure anti-terrorismo/separatismo agli standard cinesi.
Lo scorso anno, poco a nord del passo di Irkeshtam, undici uiguri sono stati uccisi in circostanze poco chiare mentre tentavano di attraversare illegalmente il confine. Confine che, stando a rilevamenti satellitari della National Space Administration, presenta “tunnel transfrontalieri” utilizzabili tanto dai rifugiati come via di fuga, quanto dagli aspiranti militanti islamici come trampolino di lancio verso i teatri di guerra mediorientali. E sebbene la diaspora uigura sia sempre più spesso direzionata verso le frontiere della Cina meridionale, tutt’oggi transitare tra Xinjiang e vicini in compagnia di viaggiatori uiguri vuol dire esporsi a minuziosi controlli e frequenti ritardi sulla tabella di marcia.
Le travagliate vicissitudini interne del Kirghizistan, “un’oasi democratica” circondata da regimi totalitari e come tale soggetta a frequenti ribaltoni politici, non fanno che agitare ulteriormente i sonni del Dragone. Sebbene non si abbia la percezione di un’adesione diffusa al fanatismo religioso, non è inusuale scovare nei principali mercati del paese -non solo nel sud conservatore ma persino nel celeberrimo Dordoy Bazaar di Bishkek- T-shirt con scritte tra il serio e il faceto (“I’m muslim don’t panic“, “I’m muslim and I’m proud“). E si fanno insistenti le testimonianze riguardo un’inusuale radicalizzazione tra le frange più emarginate della società. L’incapacità dello Stato di offrire un welfare soddisfacente, coniugata all’impennare del tasso di disoccupazione, sembrerebbe spingere giovani e piccoli nuclei famigliari (“family jihad“) a cercare sostegno nel sistema di assistenza sociale fornito dai miliziani in Siria. Una tendenza emersa solo alla fine del 2013 e che sta prendendo piede sopratutto nella valle di Fergana, già epicentro di criticità etniche con il confinante Uzbekistan.
Nel mese di febbraio, il GKNB (il KGB kirghiso) contava oltre 50 cittadini kirghisi nei campi d’addestramento jihadisti; mentre, secondo fonti di Dushambe, sarebbero circa 5000 i guerriglieri centroasiatici coinvolti negli scontri che continuano a scuotere l’Afghanistan settentrionale, a pochi chilometri dalla frontiera tagica. Difficile stimare l’effettiva entità del pericolo fondamentalismo, spesso sovrastimato dalle autorità locali per giustificare il pungo di ferro adottato per reprimere un’opposizione politica in molti casi d’ispirazione islamica. Di certo il crescente disimpegno statunitense dall’area agita non poco Pechino, tutt’altro che ansioso di calarsi nei panni di gendarme regionale. Il rischio di un effetto domino minaccia da vicino il Xinjiang, dove è sempre più difficile tirare una linea netta tra le rimostranze contro le politiche culturali portate avanti dal governo cinese e l’infiltrazioni di idee collegate al terrorismo internazionale. Questo è vero sopratutto nel Nanjiang, il Xinjiang meridionale dal sapore fortemente mediorientale. Schiere di blindati della tejing (la SWAT) sorvegliano l’imponente statua di Mao Zedong in piazza del Popolo, nel centro di Kashgar, città più vicina a Baghdad di quanto non lo sia a Pechino.
Le misure di sicurezza si fanno sempre più severe procedendo verso sud-ovest attraverso il deserto del Taklamakan, dritto fino a Hotan. Alla sera la città-oasi sprofonda in un tramonto giallo paglierino, sferzata da una delle sue abituali tempeste di sabbia. Le strade si svuotano mentre le instancabili camionette della famigerata wujing (la sicurezza interna) sfrecciano da una parte all’altra senza sosta. Rintanata nei ristoranti, la gente del posto continua a vivere la propria quotidianità con incurante leggerezza e una buona dose d’ingenuità. Chiediamo a un ristoratore uiguro il motivo di tanta polizia. “Bu zhidao (non lo so)”, si schermisce imbarazzato. Poi prende coraggio. Parla di “luan” (caos), “uccisioni all’ordine del giorno” e uno stato di militarizzazione che prosegue da molto tempo: “Ormai è quasi come l’Afghanistan.”
[Sulla Via della Seta – Seconda parte]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.