La pubblicazione del rapporto “A Raging Storm: The Crackdown on Tibetan Writers and Artists after Tibet’s Spring 2008 Protests”
apre nuovi scenari sullo sviluppo di un movimento nazionalista all’interno del Tibet, che unisce tibetani e han.
Trentuno scrittori, blogger, intellettuali tibetani imprigionati negli ultimi due anni, in seguito ad uno schieramento più o meno marcato sulla repressione della rivolta del 2008. È questo il risultato di un rapporto condotto dall’organizzazione International Campaign for Tibet, divulgato nella giornata di ieri.
La rivolta che nel 2008 ha colpito quasi tutto il Tibet sembra destinata a divenire un momento cardine della tormentata storia recente della regione. L’esplosione di malcontento, a distanza di oltre vent’anni dall’ultima sollevazione di paragonabili proporzioni, ha sancito il fallimento della politica di Pechino, con la ripresa della competizione propagandistica fra le parti, del giro di vite e delle rieducazioni ideologiche nei monasteri. Le polemiche sull’oppressione dell’altopiano tibetano hanno trovato risposta nell’indurimento delle politiche centrali e nel presunto avanzamento dell’ala radicale nei posti al potere.
Ma in questi due anni, dal ciclico rinvigorimento di un conflitto mai sopito è emerso anche un nuovo spunto di riflessione: dopo la repressione della rivolta negli anni ottanta ci si era convinti sempre più che la storia avrebbe consegnato definitivamente alla comunità esule la funzione di scrigno dell’identità tibetana. Al di là dell’Himalaya, al riparo della militarizzazione dell’altopiano tibetano.
La rivolta del 2008 ha dimostrato il contrario, con la sua esplosione, la sua diffusione ed il suo protrarsi ininterrotto fino ad oggi. Non più sottoforma di sollevazione popolare ma con il perdurare di incidenti quotidiani e delle politiche di controllo, che lasciano pochi dubbi sullo stato attuale della regione.
Poi sono usciti fuori i cinesi han: all’indomani della rivolta l’intellettuale indipendente Wang Lixiong, marito della famosa blogger tibetana Tsering Woeser, ha coordinato la diffusione di un documento in dodici punti diretto ad un riaggiustamento della politica cinese in Tibet, raccogliendo centinaia di firme. Pochi mesi dopo l’organizzazione di avvocati e ricercatori Gōngméng con base a Pechino pubblicò online uno studio che indagava sui motivi a monte della rivolta.
La risposta delle autorità non si fece sentire. Wang Lixiong e Woeser si sono ritrovati agli arresti domiciliari, mentre Xu Zhiyong, avvocato tra i fondatori di Gōngméng, è stato imprigionato per circa un mese nel 2009 ed è tuttora in attesa di un processo. Persino Wang Hui, rispettato professore di storia del pensiero politico presso la prestigiosa università di Qīnghuá, tradizionalmente associato alla sinistra radicale, negli scorsi mesi è stato accusato di avere copiato un suo articolo. Anche lui, dopo il 2008, si era avvicinato al caso tibetano con delle ricerche indipendenti.
Dopo la rivolta una parte dell’élite culturale cinese non si è fidata delle immagini riproposte dalla televisione di stato, in cui tibetani selvaggi fracassavano le vetrine dei negozi han e musulmani. Per questo si è messa a cercare motivazioni alternative per proprio conto.
Fin qui la prima parte della storia. A proseguirla ci pensa il rapporto divulgato nella giornata di ieri dall’organizzazione con base a Washington D.C., International Campaign for Tibet, intenta da due decenni nel monitoraggio dell’altopiano tibetano, nella difesa dei diritti umani dei tibetani e nel sostegno, fin troppo spregiudicato, della politica e della persona del Dalai Lama.
“A Raging Storm” è un pezzo di storia del nuovo nazionalismo tibetano, coltivato negli anni ed esploso dopo il 2008. Il rapporto pubblica una lista di scrittori, blogger, cantanti, studenti e ambientalisti tibetani arrestati, scomparsi o condannati a molteplici anni di carcere negli ultimi due anni. Porta alla luce un tassello mancante, da affiancare alle testimonianze sulle restrizioni di movimenti ai turisti stranieri nelle regioni a maggioranza tibetana. Da mettere insieme alla diramazione del regolamento (nel nome della lotta all’illegalità) che obbliga il controllo dell’identità e delle generalità di chi decide di fare una fotocopia a Lhasa. Da guardare assieme alle immagini della protesta che pochissimi giorni fa ha mobilitato gli abitanti nelle vicinanze del monastero di Labrang contro l’inqinamento dovuto ad uno stabilimento nelle vicinanze; anche in questa occasione dei testimoni hanno riportato che la polizia ha scelto di aprire il fuoco per sedare i disordini.
Gli scrittori-artisti imprigionati sarebbero trentuno, nomi poco conosciuti rispetto alle pagine internazionali conquistate da Hu Jia e Liu Xiaobo, ma noti fra i tibetani. Ragazzi o adulti, parlanti cinese e tibetano, conoscitori delle politiche e delle leggi adottate dal centro, confidenti con il web e con un accesso almeno parziale ad opere sul Tibet vietate nella RPC. È questo il profilo della nuova classe intellettuale contro cui il partito si è scagliato. Hanno alzato la loro voce dopo il 2008, interrogandosi sul perché del sangue versato e delle condanne, scrivendo post sui blog, pubblicando riviste clandestinamente, diffondendo video musicali su you tube.
Senza tirare in ballo l’indipendenza del Tibet ma mettendo in discussione le fallimentari politiche cinesi. Un po’ come Wang Lixiong e l’organizzazione Gōngméng. Tibetani e cinesi uniti dallo stesso intento: il rispetto della cultura tibetana ancora prima di una rivendicazione politica. Tibetani e han figli del multietnicismo promosso dagli anni ottanta. Tsering Woeser, eroina del neo-nazionalismo tibetano targato RPC ha sangue misto nelle vene ed un marito han. È cresciuta in una Cina in cui non ha potuto studiare tibetano ed il suo blog è in cinese. Si sente tibetana per la sua fede buddhista ancora prima che per un’appartenenza linguistica.
In altri tempi, solo due decenni fa, si sarebbe parlato di tibetani assimilati, colonizzati. Oggi quegli stessi “tibetani-cinesi” si ritrovano ad essere leader ideali di un movimento di dissenso nazionalista tibetano. E da ieri si è scoperto che alle loro spalle si sono mossi decine di tibetani della Regione Autonoma Tibetana, intenti a diffondere le loro voci. Ragazzi cresciuti nell’era della tolleranza, ma che oltre al tibetano sono stati costretti ad imparare il cinese per trovare una collocazione nel sistema. Hanno dovuto capire il linguaggio adottato dalla maggioranza han sulla questione tibetana prima di potere articolare la loro voce in risposta.
Quello che ne è uscito fuori è lo sviluppo di un nazionalismo non rinchiuso su se stesso né rivolto ad un autoriconoscimento, ma che cerca un referente nella Cina degli han e persino nelle autorità cinesi. Che fa uso della lingua han, di impostazioni e logiche ufficiali per riformulare un malcontento e delegittimare la propaganda di partito.
Percorsi complessi, anche questi: uno degli arrestati, l’editore Shogdung fino a dieci anni fa criticava la religione buddhista perché principale responsabile del ritardo e dell’arretratezza tibetana. Un perfetto tibetano progressista, si sarebbe detto durante la Rivoluzione Culturale. Ma dal mese di aprile Shogdung è in galera. Perché dopo il 2008 ha fatto marcia indietro ed ha iniziato a condividere il dissenso della gente comune, a sposare la disobbedienza civile e non violenta propugnata da Gandhi. E come lui ci sono tanti altri percorsi a metà strada. Di tibetani che agli inizi degli anni ottanta sarebbero stati considerati dei cinesi modello e che oggi si ritrovano a fare la parte dei “separatisti”, membri della “cricca del Dalai Lama”.
C’è un fermento strano oggi in Cina quando si parla di Tibet. Con giovani cinesi che sebbene si siano sempre disinteressati di questi temi e vivano a migliaia di chilometri di distanza da Lhasa, oggi, a volte, si interrogano sul perché di una rivolta. Ti chiedono perché in Occidente è normale pensare al Tibet come uno stato indipendente. Una pura curiosità, niente più.
Man mano che ci si avvicina geograficamente all’altopiano tibetano però è diverso: la curiosità diviene inchiesta, ricerca metodica delle cause di un malcontento malcelato dalle autorità, difesa da un’ingiustizia. Un movimento che dirada la coltre della censura ufficiale. E tra gli intellettuali cinesi c’è anche chi comincia a volerci vedere chiaro, delineando un’ideale comunità di intenti con le classi colte in Tibet. Contro la repressione, contro l’imperialismo culturale e per l’espressione incondizionata dell’essere tibetano.