Il cinese è considerata una delle lingue più difficili al mondo e impararlo rappresenta una continua sfida che può mandare in crisi qualunque studente, anche il più appassionato. Rimane però una lingua meravigliosa e affascinante che cattura chi inizia a decodificarne i meccanismi. Con “Studi cinesi? Vademecum per aspiranti sinologi” (Orientalia Editrice, 12 euro) Mauro Marescialli offre al lettore una panoramica sulle difficoltà che si possono incontrare nello studio del cinese e consigli preziosi su come affrontarle. China Files vi propone un estratto del manuale per gentile concessione dell’editore.
La sala riunioni è ormai quasi pronta. Tra un ritocco al Powerpoint e una scorsa ai blocchi di fotocopie i miei colleghi completano gli ultimi preparativi per la nostra presentazione al cliente celando l’ansia dietro un chiacchiericcio blando e risatine nervose. Dopo un sorso di tè e l’ennesima occhiata all’orologio esco dalla sala e raggiungo il bagno. Mi tolgo gli occhiali e li ripongo sul lavandino.
Apro il rubinetto, mi sciacquo la faccia, prendo un fazzoletto di carta e asciugo l’acqua mista al sudore con un lento movimento dalla fronte in giù. Mi guardo allo specchio per qualche secondo.
Capelli a posto, volto rasato, nodo alla cravatta ben fatto. Peccato per quelle borse giallastre sotto agli occhi, ma dopo aver inforcato gli occhiali noto con piacere che la montatura le nasconde in modo efficace. Dopo un paio di respiri profondi mi metto una mentina in bocca ed esco dal bagno. Invece di dirigermi verso la sala riunioni imbocco un corridoio fino all’uscita d’emergenza dove c’è un angolo semi nascosto che ospita un secchio per i rifiuti. Poggio la schiena contro il muro ed estraggo dalla giacca un foglietto con i miei appunti per la presentazione. Scorro le righe scritte a matita girando e rigirando il foglietto, ripercorrendo mentalmente i punti principali del mio discorso. Tra pochi minuti avrò di fronte l’intero consiglio d’amministrazione dell’azienda del cliente per presentare il primo rapporto sul nostro lavoro: il risultato di due mesi stressanti e difficili ritmati da intense, interminabili riunioni col cliente, nottate in ufficio, stesura di piani, analisi di dati e un numero imprecisato di brain-storming coi miei colleghi. Il cliente è un’importante joint-venture sino-coreana e il progetto a cui stiamo lavorando riguarda la nuova strategia di branding e comunicazione dell’azienda in Cina. Il signor Kim e il signor Pak, entrambi coreani, sono i nostri interlocutori principali e guidano il dipartimento di marketing incaricato del progetto. Lavorare con i cinesi pone spesso delle sfide difficili, ma farlo coi cinesi e coi coreani aggiunge un ulteriore grado di complessità al lavoro della mia agenzia.
Innanzitutto dobbiamo lavorare in tre lingue. Con i coreani si comunica in inglese e con i cinesi in mandarino sia per via orale che per iscritto, e fin qui tutto bene. Tuttavia la documentazione che produciamo deve essere tradotta per intero anche in coreano in quanto le attività della joint-venture vanno riferite con puntuale precisione alla sede centrale di Seul. La traduzione in coreano viene effettuata da un’interprete raccomandata dal cliente, la signora Chen, una professionista che ci costa un occhio della testa. Ma costi a parte, tradurre anche in coreano richiede che il materiale scritto in inglese e cinese sia pronto ed approvato dal cliente con almeno due giorni d’anticipo su ogni scadenza per dare tempo alla signora Chen di tradurlo e al cliente di scrutinarlo un’ultima volta. In un progetto complesso come questo, caratterizzato da scadenze assai strette, finalizzare il nostro lavoro in anticipo per avere la versione in coreano ci complica parecchio le cose.
Ma oltre all’aspetto linguistico collaborare coi signori Kim e Pak presenta altre sfide, riconducibili al modo di lavorare dei coreani e più in generale a divari di natura culturale. Prima di questo progetto ho avuto altre esperienze di lavoro con ditte coreane e ho sempre finito per notare una spiccata inclinazione alla pignoleria. Anche quando una questione è stata chiarita e sviscerata nei minimi particolari, prima o poi i coreani finiscono per tornarci sopra esprimendo dubbi che ormai si pensava di aver fugato del tutto una settimana prima. Ecco perché riunioni che dovrebbero durare un’ora finiscono sovente per durare il doppio o il triplo del tempo. Un’altra particolarità consiste nella ferrea struttura gerarchica che regola l’etichetta, le relazioni e i comportamenti tra membri dell’azienda appartenenti a ranghi differenti. Questo fenomeno è comune anche in molte aziende cinesi, ma i coreani – al pari dei giapponesi – lo portano a tutt’altro livello, sottolineato dai gesti reverenziali dei subordinati e, soprattutto, dal loro crescente nervosismo ogni volta che ci si prepara o si partecipa a un incontro con un pezzo grosso dell’azienda. La tensione che si addensa in questo processo si traduce in un’agitazione irrefrenabileche viene proiettata di riflesso anche su chi all’azienda non appartiene, come nel caso della mia agenzia. Così oggi, a questa benedetta presentazione al consiglio d’amministrazione del cliente, io e miei colleghi ci arriviamo con un sovraccarico di ansia accumulata in due lunghi mesi di lavoro quotidiano coi signori Kim e Pak e con altri membri della joint-venture.
Dopo essermi infilato il foglietto con gli appunti in tasca mi avvio di nuovo verso la sala riunioni e do un occhiata all’orologio: mancano pochi minuti all’ora ‘X’, ma dopo essere entrato in sala noto che mancano all’appello un paio di boss dell’azienda. Il lungo tavolo di legno al centro della stanza è circondato da due dozzine di larghe sedie in pelle nera occupate dai partecipanti. Il rituale prevede che i membri coreani del consiglio siedano tutti su un lato e quelli cinesi su quello opposto. La stessa separazione vale per le decine di subordinati che siedono immediatamente alle loro spalle. All’estremità più lontana del tavolo si è già sistemata l’interprete, la signora Chen, che tradurrà in simultanea in coreano. I miei colleghi hanno appena finito di collaudare i computer su cui sono state caricate le nostre due presentazioni, una in cinese e una in coreano, perfettamente speculari e pronte ad essere proiettate in contemporanea su due schermi adiacenti. La sala è stracolma. Tra dirigenti e assistenti ci saranno almeno una trentina di persone sedute in modo ordinato, chi a maneggiare il cellulare, chi a sfogliare gli stampati della nostra presentazione, chi a sorseggiare tè dalle tazze in dotazione. Colpisco leggermente col dito il microfono che mi è stato applicato sulla giacca e gli altoparlanti della sala reagiscono con un suono sordo. Tutto a posto. Mi avvicino agli schermi, occupando la posizione da cui di lì a poco dovrò presentare. Preferisco parlare in piedi spostando lo sguardo tra la proiezione e gli occhi degli astanti e muovendomi il meno possibile per non distrarre chi ascolta. Sono teso, contrito ma a preoccuparmi non è solo l’importanza dell’occasione in sé; a turbarmi la mente c’è infatti anche un altro pensiero: la presentazione dovrò farla tutta in cinese.
Il fatto che ne conosca i contenuti alla perfezione e che abbia fatto un numero imprecisato di prove poco importa. Infatti, in un’occasione di lavoro importante, quando si avvicina il momento di aprir bocca in cinese mi passa sempre un brivido per la schiena. Vivo in Cina da più di vent’anni, ho un ottima conoscenza della lingua sia parlata che scritta e di presentazioni in cinese ne ho fatte a centinaia. Eppure, nonostante tutta la mia esperienza, in situazioni come queste cado con religiosa puntualità in una mini-crisi di fiducia. Caratteri, toni, espressioni e proverbi cinesi mi si aggrovigliano in testa dandomi la sensazione che da lì a qualche secondo non sarò capace di esprimermi in modo compiuto. In queste circostanze riuscire subito ad entrare nel ritmo fluido del parlato è l’unico modo per superare lo scoglio di un improvviso e potenzialmente catastrofico blocco linguistico. Ingranare in fretta la marcia giusta è la soluzione per riuscire ad innescare il pilota automatico del mio cinese.
La ragione di questa paura estemporanea ho imparato a conoscerla bene in tutti gli anni trascorsi a studiare, vivere e lavorare in Cina e si riconduce a una semplice constatazione: il cinese non lo s’impara mai alla perfezione. È una lingua troppo profonda e complessa per essere conosciuta e parlata allo stesso livello da chi cinese non è. Punto. Questo è il tarlo atavico che mi impedisce di avere col cinese la stessa confidenza che provo quando mi esprimo in inglese. Perché pur avendo studiato, lavorato e vissuto tutti questi anni in Cina, non passa un singolo giorno senza che io realizzi di non conoscere quel carattere o quel proverbio, il tono di una parola o il significato di un’altra pronunciate da un amico, una collega o da un tipo alla TV. È una sensazione frustrante, che non fa altro che rinforzare giorno dopo giorno la convinzione che ‘imparare il cinese’ sia in effetti una frase senza alcun senso. Perché il cinese non s’impara mai, il cinese lo si studia per sempre.
All’interno della sala si attende solo l’arrivo del presidente della joint-venture, il signor Zhang. Siamo dieci minuti in ritardo rispetto al programma e non mi resta che attendere in piedi di fronte all’intera sala, somministrando sorrisi agli astanti e cercando di tenere a bada l’adrenalina. Ma ecco che preceduto da un brusio il signor Zhang fa finalmente il suo ingresso seguito da quattro assistenti. È un gentiluomo cinese sulla sessantina, alto ed elegante. È la prima volta che lo incontro di persona, lo avvicino, gli stringo la mano e mi presento in cinese.“Ah!” esclama lui, rivolgendosi bonario ai suoi subordinati “il signor Mao parla il cinese molto bene”.Gli ho solo detto “Signor Zhang, sono Mao Yihui. Piacere di conoscerla” ma com’è spesso costume qui in Cina, complimentarsi in modo entusiastico con uno straniero che ha detto un semplice ‘buongiorno’ rappresenta una forma di cortesia.
Dopo essersi accomodato sulla sedia il signor Zhang si gira e mi fa un cenno con la mano. Lancio una rapida occhiata al signor Kim e al signor Pak, in piedi spalle al muro sul lato opposto della sala, tesi e cinerei. Ricevuto il loro assenso faccio un respiro profondo, premo il tasto del telecomando e do il via alla mia presentazione.