Solcare acque tempestose richiede un timoniere forte. E una ciurma che ne segua la navigazione senza provare a deviarne la traiettoria. La grande crisi finanziaria del 2008 aveva rafforzato la sicurezza di Pechino che la rotta intrapresa fosse quella giusta e che si potesse avvicinare al porto senza eccessivi scossoni e, anzi, sfruttando un’improvvisa moltiplicazione di «opportunità strategiche». Ora, la nuova crisi economica e inflazionistica è solo il sintomo di una più vasta tensione geopolitica che minaccia tempesta. Con un’ulteriore preoccupazione: la Cina sa di essere nel mirino di chi per ora ha ancora la nave più grossa, seppur deturpata da scricchiolii interni. Cioè gli Stati uniti, che alzano la pressione a tutto campo per contenere quello che è diventato il rivale numero uno.
Con onde più alte, serve ancora maggiore controllo. Ed ecco allora che Xi Jinping e il Partito comunista cinese escono dal XX Congresso come un corpo unico. La sicurezza nazionale, già mantra della “nuova era”, diventa dogma. Parola chiave più citata da Xi nel suo discorso di apertura del conclave cinese, dietro solo ai canonici «partito», «paese» e «popolo». Un ombrello sotto cui rientra la difesa, certo, ma anche sanità e ambiente. Non a caso il contenimento della pandemia è stato definito una «guerra» da Xi. Uno sforzo bellico per ora vinto, ma che non ammette distrazioni. Ergo, la strategia zero Covid non sparirà improvvisamente nel nulla.
Il focus sulla sicurezza nazionale ha effetti anche sulla politica estera, che pare destinata a mantenere o aumentare la sua declinazione battagliera. L’ingresso nel Comitato centrale di Qin Gang, attuale ambasciatore a Washington, lascia intendere che sia un papabile per diventare ministro degli Esteri quando a marzo saranno rinnovate le cariche statali. Una mossa anomala, che porterebbe direttamente Qin dalla postazione diplomatica più importante a un ruolo in cui i rapporti con gli Stati uniti sono declinati su un accento più antagonistico. Un premio a una delle punte di diamante del team di inviati all’estero. Proprio Qin ha liquidato il termine wolf warrior, ma Xi ha ribadito la necessità di raccontare «bene» la storia della Cina in giro per il mondo.
La conferma nel Comitato centrale del ministro uscente, invece, dice che Wang Yi potrebbe succedere a Yang Jiechi come capo della diplomazia. Sarebbe una nomina che non dispiacerebbe all’altra sponda dello Stretto, che conosce bene Wang dai tempi in cui dirigeva l’Ufficio degli Affari di Taiwan tra il 2008 e il 2013. Vale a dire la fase di maggiore distensione tra Pechino e Taipei.
Un piccolo conforto In mezzo a tanti segnali preoccupanti. Dopo una relazione che si è concentrata soprattutto sulle «interferenze esterne» ma ponendosi in sostanziale continuità con il lessico utilizzato negli ultimi anni, Xi ha fatto approvare un emendamento allo statuto in cui si legge che il Partito è chiamato a «opporsi con determinazione e scoraggiare i separatisti che cercano di ottenere l’indipendenza». Secondo Lev Nachman della National Chenghi University di Taipei, «sarà la base legale della futura legge per la riunificazione», che amplierà lo spettro di azione dell’attuale legge anti-secessione. Con un (non semplice) obiettivo politico: recidere il legame tra mondo imprenditoriale e partito di maggioranza taiwanesi.
«Si tratta di un cambio significativo di tono per lo statuto del Partito», ammette Wen Ti-sung dell’Australian National University. «Pechino sta rispondendo all’internazionalizzazione della questione taiwanese operata dagli Usa, una delle sue linee rosse. Ma la guerra resta l’ultima opzione per Xi», aggiunge. Intanto, però, alcune nomine lasciano intendere che Taipei sarà una delle priorità del terzo mandato. He Weidong, che da capo del teatro orientale dell’esercito cinese ha guidato i test militari di agosto in risposta alla visita di Nancy Pelosi, è ora vicepresidente della Commissione militare centrale. Un altro ufficiale promosso, l’ammiraglio Miao Hua, è originario di Fuzhou: esattamente di fronte alle isole Matsu. Liu Shulei, un teorico già ribattezzato come “nuovo Wang Huning”, è stato capo dell’ufficio di propaganda del Fujian, la provincia che si affaccia sullo Stretto.
Nel suo rapporto politico, Xi ha insistito molto sulla necessità di rafforzamento e ammodernamento tecnologico militare. Il terzo mandato sfocerà peraltro nel 2027, centenario dell’Esercito popolare di liberazione. Per quell’anno, la Cina avrà nettamente aumentato l’arsenale nucleare a propria disposizione. L’obiettivo è quello del potenziamento della «deterrenza strategica», altro concetto apparso nei documenti del Congresso. Non è dato sapere se Xi pensi alla guerra, ma di certo vuole un Partito e una Cina più preparati a combatterla. Sperando che le onde sempre più alte non si trasformino in uno tsunami.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il manifesto]