Stanchi dell’Europa

In by Simone

Mentre l’economia europea affonda, potenze grandi e piccole guardano sempre più a Oriente. Nel Pacifico i lavori in corso  sono  per la costruzione di due aree di libero scambio: la trilaterale Cina – Corea del Sud – Giappone contro l’accordo capitanato dagli Stati Uniti. Ma la strada è ancora lunga. Una barzelletta molto popolare in Cina subito dopo la caduta del Muro di Berlino raccontava di un funzionario del ministero degli Esteri in pensione che riceveva la visita di un collega ancora in servizio.

"Come vanno le cose nel mondo?", chiede il primo. "Tutto a posto", risponde il più giovane, "solo un po’ di tensione alla nostra frontiera con la Germania".

Chissà se qualcuno in Europa o negli Stati Uniti ha pensato a una storiella del genere quando il primo ministro cinese Wen Jiabao siglava con il premier giapponese Yoshihiko Noda e con il presidente sudcoreano Lee Myung-bak l’accordo per iniziare entro l’anno i negoziati sulla creazione di una zona di libero scambio.

A parti rovesciate – anche se ovviamente qualsiasi forma di unione politica è fuori discussione, almeno per il momento – il sentimento che questa ipotetica Trilaterale Pechino-Tokyo-Seul può suscitare negli altri Paesi è simile a quello che provocava nei cinesi la riunificazione tedesca: l’impressione di assistere alla nascita di un soggetto enorme, difficile da inquadrare e vagamente minaccioso.

Secondo i dati della Banca mondiale, nel 2010 le tre nazioni hanno costituito da sole il 19,7 per cento del prodotto interno lordo globale, contro il 27,2 per cento della Nafta – North American Free Trade Agreement, che riunisce Usa, Canada e Messico – e il 25,8 per cento rappresentato dall’Unione europea.

Le statistiche pubblicate dal ministero degli Esteri di Pechino mostrano che nel 2011 gli scambi commerciali tra le tre nazioni avevano raggiunto quota 690 miliardi, contro i 130 miliardi del 1999.

Nello stesso anno gli investimenti diretti esteri verso la Cina provenienti da Giappone e Corea del Sud hanno raggiunto rispettivamente quota 80 e 50 miliardi di dollari.

Un dato importante, quest’ultimo, specialmente per Pechino. Nell’economia cinese gli investimenti esteri rivestono tuttora un ruolo fondamentale, ma i risultati dell’“aprile nero del 2012” – per il Dragone il mese peggiore dallo scoppio della crisi globale – mostrano un crollo verticale dei capitali provenienti dall’Unione europea (-27,9) e un timido aumento dell’1,9 per cento di quelli americani.

Insomma, la situazione della vecchia Europa desta preoccupazioni sempre più profonde e neanche l’America ispira particolare fiducia. Meglio allora corazzarsi insieme a partner vicini e solidi, contro la crisi che viene da Occidente.

Tanto più che, come hanno sottolineato i tre leader asiatici, le economie delle tre nazioni sono praticamente complementari.

La Cina fornisce già a Giappone e Corea del Sud impianti industriali efficienti e manodopera a un costo relativamente basso, mentre Seul e Tokyo detengono quella tecnologia di cui Pechino ha un bisogno quasi disperato per aggiornare il suo modello di sviluppo, staccarsi dal manifatturiero di scarsa qualità e puntare finalmente all’hi-tech.

Ma la “Trilaterale dell’Estremo Oriente” non è solo questione di contrasto alla crisi. Si tratta anche di reagire a una precisa mossa a tenaglia che arriva dagli Usa: la Trans Pacific Partnership.

Nel 2005 la Tpp era solamente un oscuro accordo economico siglato tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore.

Ma nel 2008 si uniscono gli Usa, e la partnership esce dai gironi bassi della geopolitica.

L’obiettivo di Washington è quello tracciato da Hillary Clinton: realizzare "un network per l’area Asia-Pacifico, simile a quello costituito sul fronte trans-atlantico nel Ventesimo secolo".

Parole con un significato preciso, perlomeno dal punto di vista di Pechino: se la rete atlantica serviva a contenere l’Unione Sovietica e i suoi satelliti, a chi può essere rivolto il network del Ventunesimo Secolo?

Nel corso di un summit del novembre scorso, i 21 paesi riuniti nell’Asia- Pacific Economic Cooperation iniziano a negoziare l’accesso al Tpp su impulso di Barack Obama.

Il patto prevede l’abbassamento delle tariffe doganali e la costruzione di quella che – con quasi 800 milioni di consumatori e il 40 per cento circa dell’economia globale – diventerebbe la più grande zona di libero scambio del mondo.

Australia, Malaysia, Nuova Zelanda, Vietnam e molte altre nazioni del sudest asiatico: su una carta geografica la Tpp sembra un insieme di frecce accomunate dal segno delle liberalizzazioni e puntate contro un unico obiettivo, la Cina, che non a caso rimane esclusa dai giochi.

Fuori, per ora, ci sono anche Tokyo – che sta però valutando l’ingresso – e Seul, legata comunque a Washington da un robusto patto commerciale bilaterale.

Se Cina, Giappone e Corea del Sud hanno tutto l’interesse a una maggiore integrazione economica, la Trilaterale del Far East avverte ancora il peso di rivalità storiche, che si proiettano fino a oggi.

Il violento espansionismo giapponese ai danni di Pechino e Seul è roba da Ventesimo Secolo, ma i contrasti territoriali proseguono, e alimentano forti tensioni sull’onda degli stereotipi regionali.

"La Cina è semplicemente un enorme mercato", ha dichiarato il premier giapponese subito dopo la firma dell’accordo trilaterale, "e su questo non c’è null’altro da aggiungere".

Il primo ministro Yoshihiko Noda è ostaggio della solita, ondivaga politica interna giapponese: i gruppi ultranazionalisti sono minoritari, ma esercitano tutta la loro influenza su chi vuole rimanere in carica.

Subito dopo il vertice per siglare i negoziati sull’area di libero scambio, il presidente cinese Hu Jintao ha snobbato un incontro con il giapponese Noda, accettando di vedere solo il coreano Lee-Myung-bak.

Pechino ha anche bloccato il meeting tra il ministro degli Esteri Yang Jiechi e Hiromasa Yonekura, a capo del potentissimo gruppo industriale Keidanren. La ragione? Viene dall’estremo occidente della Cina.

Negli stessi giorni Tokyo ha deciso di ospitare un vertice del World Uyghur Congress. Gli uiguri sono una minoranza etnica della Cina occidentale, turcofona e islamica, che lamenta le discriminazioni del Partito comunista.

Per Pechino sono solo un’ulteriore minaccia separatista, e chi li accoglie è ritenuto un attentatore alla sovranità territoriale della nazione.

Qualche giorno dopo, Tokyo accusava Pechino di condurre esercitazioni militari con l’ausilio di droni in un’area pericolosamente vicina alle acque territoriali giapponesi.

Né le relazioni Pechino-Seul possono considerarsi tranquille: recentemente il Dragone ha arrestato con l’accusa di spionaggio alcuni attivisti sudcoreani, rei di avere cercato un contatto con i “fratelli separati” della Corea del Nord che vivono in Cina.

Il Giappone è una democrazia con maggioranze fragili, sulla quale pesa ancora la tradizione rappresentata dall’Imperatore. La Corea del Sud ha scelto la via della tecnocrazia.

La Cina è un regime a partito unico, privo dei fondamenti dello stato di diritto. Forse la Trilaterale del Far East guarda al crollo della Grecia e vede il simbolo dello sfascio dell’Occidente. Ma la strada da percorrere per un qualche tipo d’integrazione è ancora lunga.

*Antonio Talia è dal 2007 il corrispondente a Pechino per l’Agenzia Giornalistica Italia. Potete seguirlo su Twitter @AntonioTalia.

[Scritto per Linkiesta; Foto Credits: mapsof.net]