Esame di geopolitica. Il presidente Rajapaksa illustri le soluzioni da adottare per neutralizzare le istanze indipendentiste della minoranza tamil alleggerendo le pressioni dell’opinione pubblica internazionale per le accuse di crimini di guerra mosse contro il suo esecutivo.
Esame di geopolitica. Prova teorico-pratica per il mantenimento della carica di presidente della repubblica singalese.
Il candidato illustri quali soluzioni adottare per neutralizzare di fatto le mai sopite istanze indipendentiste della minoranza tamil nei confronti del governo centrale di Colombo, alleggerendo al tempo stesso le pressioni dell’opinione pubblica internazionale per le accuse di crimini di guerra mosse contro il suo esecutivo. Svolgimento: 13+1.
Per rispondere a un quesito di indubbia complessità come quello che la storia gli ha posto, il presidente dell’ex Ceylon Mahinda Rajapaksa ha tirato fuori dal cilindro una formula di ingegneria costituzionale che per la sua essenzialità potrebbe competere con l’equazione di Einstein che stabilisce l’equivalenza materiale tra energia e massa (la famosa E=mc²), ma che, proprio come il geniale paradigma, cela una complessità che è eufemistico definire ragguardevole.
All’inizio del 2012, durante una visita del ministro indiano degli Affari esteri Somanahalli Mallaiah Krishna, Rajapaksa è tornato a promettere pubblicamente l’imminente creazione di un organo consultivo per dare attuazione al 13esimo emendamento della costituzione singalese, che prevede un’ampia autonomia delle province settentrionali e orientali dell’isola abitate dalla minoranza tamil, con un contestuale trasferimento di poteri ai loro organi rappresentativi.
La ratio della norma sarebbe quella di favorire un decentramento del potere volto a garantire un bilanciamento tra la maggioranza cingalese e gli altri gruppi minoritari presenti sull’isola, che non sono solo tamil ma anche musulmani e in misura minima cristiani e zoroastriani.
Subito dopo l’annuncio, il governo di Colombo ha chiesto alla Tamil national alliance (Tna), il principale partito tamil, di sostenere attivamente la nascita di questo Parliamentary select commitee, presentandolo come un organo tecnico cui sarà affidato il compito di tracciare le linee guida per favorire il passaggio dei poteri dalle autorità centrali alle province del Nord-Est.
Una mossa studiata a tavolino da Rajapaksa per proiettare all’esterno l’immagine di una mano tesa, tentando però al tempo stesso di mettere spalle al muro l’interlocutore con una proposta in apparenza irrespingibile ma che in realtà porterebbe solo alla creazione di un nuovo organo burocratico nelle mani del capo di Stato. Niente di più di un comodo instrumentum regni a costo zero.
Riprendendo le entusiastiche dichiarazioni del ministro dei Media e dell’informazione Keheliya Rambukwella, la stampa nazionale e internazionale ha prontamente ribattezzato la manovra come il Thirteen plus, 13+1 insomma, dando però alla formula una connotazione molto diversa da quella del membro del governo, che si è sforzato di presentarla come "un’evoluzione del 13esimo emendamento", e sottolineandone con forza l’intento strumentale.
Da anni la popolazione tamil guarda all’attuazione del 13esimo emendamento (introdotto nel 1987, nove anni dopo l’entrata in vigore della costituzione) come all’unica strada percorribile per ottenere una solida base legale e istituzionale su cui costruire quell’autonomia che la minoranza non ha mai smesso di agognare.
Se le previsione contenute nel 13esimo emendamento venissero concretizzate , le regioni settentrionali e orientali dell’isola potrebbero finalmente veder sancita quell’autonomia di cui, almeno in parte, già godono de facto, e di cui gli organi per l’amministrazione della giustizia, della sicurezza e della riscossione dei tributi di cui i tamil si sono dotati nel corso degli ultimi trent’anni rappresentano una chiara estrinsecazione.
Inoltre la sostanziale indipendenza in cui si verrebbero a trovare queste province consentirebbe agli abitanti di sentirsi finalmente al riparo dalle misure di marginalizzazione politica ed economica ancora oggi adottate nei loro confronti dal governo della maggioranza cingalese.
Ingiustizie e soprusi che il report “No war, no peace: the denial of minority rights and justice in Sri Lanka” dell’organizzazione Minority rights group è tornato a denunciare tre settimane fa, ponendo l’accento soprattutto sugli insistenti tentativi del presidente Rajapaksa di imporre il culto buddista all’intera popolazione e sullo sviluppo di progetti economici che, invece che tutelare, danneggiano gli interessi delle minoranze.
A quasi tre anni di distanza dalla fine del conflitto che ha tinto di rosso sangue la Lacrima dell’India, sono ancora migliaia i tamil che continuano a vivere all’interno dei campi profughi allestiti nella penisola di Jaffna e in altre zone delle province nord-orientali.
Il sito Asianews riferisce, ad esempio, di 100 famiglie di fatto segregate nel campo J-354 di Udduppidi e di altre 52 in quello di Sinnaweli, dove sono state trasferite negli anni Novanta, che da oltre un anno non ricevono più derrate alimentari e generi di prima necessità perché ormai "la guerra è finita".
A fronte di questa drammatica situazione, pur essendosi presentato al popolo cingalese come il grande pacificatore, colui che è riuscito ad annichilire definitivamente le forze dell’Ltte, Le Tigri per la liberazione della patria tamil, che dal 1983 al 2009 hanno combattuto contro l’esercito di Colombo per ottenere l’indipendenza della loro terra (dando vita a una guerra civile costata tra gli 80 e i 100mila morti), il presidente Rajapaksa si è sempre ben guardato dal dare attuazione a quel progressivo trasferimento di poteri e competenze più volte promesso a gran voce.
Dopo la fine del conflitto il capo di Stato si è preoccupato unicamente di consolidare il suo potere e quello della sua famiglia (che è arrivata a controllare 5 ministeri e più di 90 enti statali), limitandosi ad avviare una timida politica di sviluppo incentrata sulla crescita delle infrastrutture e sul tentativo di attirare capitali esteri, soprattutto dalla Cina e dall’India.
Le sue scelte e le sue decisioni non hanno minimamente affrontato i reali problemi politici, sociali ed economici del Paese, come dimostrano anche le proteste e gli scioperi che negli ultimi tempi stanno agitando il sud.
Negli anni passati Rajapaksa ha incolpato della mancata devolution la "debole maggioranza parlamentare", che a suo dire gli ha sempre impedito di realizzare quelle modifiche costituzionali necessarie a garantire l’autonomia delle regioni tamil.
Un problema che non si è invece posto quando nel settembre del 2010 il capo di Stato ha deciso di introdurre un nuovo emendamento nella carta fondamentale, il numero 18, che ha notevolmente aumentato i suoi già ampi poteri e abolito il divieto di candidarsi oltre il secondo mandato, spianandogli la strada alla carica a vita e infilando un lungo e pesante chiodo nella bara della democrazia srilankese.
Come molti osservatori e specialisti della stampa internazionale non hanno mancato di sottolineare, lo stallo sulla devolution che si è venuto a determinare in questi anni è in realtà la chiara dimostrazione delle mire nazionaliste che animano da sempre la politica del presidente e ha determinato un passo indietro di due decenni sulla strada della riconciliazione nazionale.
E se è vero che recentemente Rajapaksa è tornato a parlare del 13esimo emendamento, non bisogna sottovalutare che lo ha fatto solo nella versione “riveduta e corretta” del 13+1, che lo vedrebbe nel ruolo di burattinaio pronto a muovere i fili a suo capriccio, e che, non a caso, il tentativo di appeasement è arrivato in un momento di forti pressioni da parte della comunità internazionale sulla questione dei crimini di guerra commessi dal governo e dal Ltte durante il conflitto.
L’ultimo segnale in questo senso è arrivato dagli Stati Uniti, che all’inizio di febbraio hanno fatto sapere che intendono promuovere in seno al Coniglio Onu per i diritti umani (che si riunirà a fine mese) l’adozione di una risoluzione per chiedere all’esecutivo cingalese l’attuazione delle raccomandazioni formulate dalla Llrc, la commissione governativa istituita per indagare sulle ultime fasi della guerra civile.
Creata per volere dello stesso Rajapaksa, la Lessons learnt and reconciliation commission ha rilasciato a dicembre un dossier di 400 pagine che risponde all’inchiesta delle Nazioni unite sul conflitto, voluta dal segretario generale Ban Ki-moon e pubblicata lo scorso aprile.
Contrariamente al documento redatto dagli esperti dell’Onu, che addita come responsabili di crimini contro la popolazione civile sia i soldati del Ltte sia i militari di Colombo, il rapporto della Llrc sottolinea che le forze di sicurezza governative "non hanno" in nessuna occasione "attaccato in maniera deliberata" i residenti delle zone dove si sono svolti gli scontri, diversamente dalle Tigri tamil, colpevoli invece di "gravi violazioni dei diritti umani".
Ma come ha scritto Ahilan Kadirgamar, attivista dello Sri Lanka democracy forum e della South Asia solidarity iniziative, in un lungo articolo di analisi pubblicato sul The Hindu, pur non individuando responsabilità dirette a carico del governo, la commissione ha comunque rivolto all’esecutivo una serie di raccomandazioni per la gestione della fase di riconciliazione postbellica. Raccomandazioni che saranno al centro della risoluzione del Consiglio Onu per i diritti umani annunciata dagli Usa.
In particolare, la Llrc ha invitato l’esecutivo a "tenere in adeguata considerazione la lezione appresa dai problemi di funzionamento riscontrati nel sistema dei consigli provinciali, nell’ottica dell’avvio di un processo di trasferimento di poteri e competenze" e ad avviare un "dialogo strutturato con tutti i partiti politici, in primo luogo con quelli che rappresentano le minoranze". Suggerimenti che appaiono dettati dal semplice buon senso politico, e che tuttavia sono stati fino ad oggi ignorati dal presidente Rajapaksa.
A questo punto, se il leader singalese è seriamente intenzionato a tornare sui passi finora mossi e a dare attuazione a una reale devolution, dovrà concedere alle province sia poteri di polizia, per affrontare i problemi di sicurezza delle minoranze, sia poteri fiscali e finanziari, per favorire lo sviluppo autonomo delle regioni, nonché ampi poteri amministrativi.
Solo presentando provvedimenti concreti e una road map per la loro attuazione il capo di Stato può sperare di riconquistare la fiducia dei tamil e degli altri gruppi minoritari, primo passo sulla tortuosa strada della riconciliazione nazionale. Un sentiero che lo Sri Lanka ha disperatamente bisogno di percorrere.
[Foto credit: tampabay.com]
* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.