L’indagine di ITJP in Sri Lanka mostra infatti come molte pratiche (dalle sparizioni alla tortura) condotte contro i combattenti LTTE e la popolazione civile Tamil negli anni immediatamente dopo la fine della guerra restano tutt’oggi di comune utilizzo. I dettagli arrivano dalle dichiarazioni di 123 Tamil (109 uomini e 14 donne, la maggior parte di età compresa tra 20 e 39 anni), arrestati tra il 2015 e il 2022 e detenuti dalle forze di sicurezza dello Sri Lanka, alcuni anche più volte.
In Sri Lanka la guerra civile è finita da quindici anni, ma per la minoranza tamil gli orrori continuano. A sostenerlo è un rapporto della no-profit International Truth and Justice Project (ITJP), secondo il quale parte delle violenze dei primi anni Duemila sono proseguite sotto l’amministrazione del presidente Ranil Wickremesinghe. Si stima che tra le 80.000 e le 100.000 persone – tanto di etnia cingalese quanto tamil – siano morte durante quei 25 anni di conflitto che dal 1983 fino al 2009 ha visto il governo di Colombo scontrarsi con le Tigri per la liberazione del Tamil Eelam (LTTE), movimento indipendentista guidato da Velupillai Prabhakaran. Una “persecuzione” certificata nel 2011 da un rapporto dell’Onu, stando al quale le autorità minimizzarono deliberatamente il numero dei civili rimasti intrappolati nelle zone di conflitto e li privarono degli aiuti umanitari, compresi cibo e medicinali, mentre le LTTE a loro volta usarono bambini soldato, presero civili in ostaggio per usarli come scudi umani. Chi cercava di fuggire fu ucciso senza pietà.
Le modalità della carneficina, che ha raggiunto la fase più cruenta nel 2009, spiccano per efferatezza. In particolare prove verificate dalle organizzazioni internazionali attestano che l’esercito dello Sri Lanka ha bombardato centri di distribuzione alimentare, ospedali e rifugi civili, nonostante le coordinate fornite dall’Onu e dal Comitato Internazionale della Croce Rossa ne permettessero la localizzazione esatta. Ha ordinato ai civili di entrare in “no-fire zone” sempre più piccole per poi attaccarle usando proiettili di artiglieria non guidati e lanciarazzi a più canne, sparando centinaia e talvolta migliaia di proiettili al giorno con un bilancio spesso di oltre 1.000 civili trucidati ogni 24 ore. Le autorità hanno anche limitato la fornitura di cibo e medicinali essenziali, compresi gli anestetici. Restrizioni che gli osservatori internazionali ritengono siano state applicate appositamente per aumentare la sofferenza degli arrestati. Quel rapporto Colombo aveva chiesto all’Onu non venisse reso pubblico. Ora le vecchie accuse tornano a colpire la dirigenza cingalese. E alle vecchie se ne aggiungono di nuove.
L’indagine di ITJP mostra infatti come molte pratiche (dalle sparizioni alla tortura) condotte contro i combattenti LTTE e la popolazione civile Tamil negli anni immediatamente dopo la fine della guerra restano tutt’oggi di comune utilizzo. I dettagli arrivano dalle dichiarazioni di 123 Tamil (109 uomini e 14 donne, la maggior parte di età compresa tra 20 e 39 anni), arrestati tra il 2015 e il 2022 e detenuti dalle forze di sicurezza dello Sri Lanka, alcuni anche più volte.
Le detenzioni – complessivamente 139 – sono durate da un giorno a un anno e mezzo, ma nella maggioranza dei casi si sono protratte fino a circa un mese. La dinamica è più o meno sempre la stessa: i testimoni hanno raccontato di essere stati fermati da uomini in abiti civili, pertanto non ricollegabili ad agenzie specifiche. Quasi tutti bendati, sono stati caricati su un furgone con le mani legate dietro la schiena. A parte alcune eccezioni, la maggior parte è stata portata in un luogo sconosciuto senza che le famiglie fossero informate della destinazione. In 130 su 139 casi le vittime sono state picchiate con vari strumenti, quali bastoni, tubi e cavi. Oltre alle percosse, tra le tecniche di tortura figurano l’annegamento (tenendo la testa sotto l’acqua); asfissia; bruciature con sigarette e altri oggetti riscaldati; sospensione con corde (dalle mani o dai piedi), elettrocuzione nonché rimozione delle unghie. La violenza sessuale è stata perpetrata durante 91 delle 139 detenzioni, ovvero nel 65% dei casi. Di questi 78 hanno coinvolto uomini (il 62%) e 13 donne. Il che vuol dire che tutte le donne trattenute, tranne una, sono state vittime di abusi.
Quanto riscontrato da ITJP collima con il giudizio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che nel 2019 aveva constatato come – anche a fronte di miglioramenti nella tutela delle libertà personali – informazioni credibili attestassero la prosecuzione di rapimenti, detenzioni illegali, torture e violenze sessuali da parte delle forze di sicurezza nei tre anni intercorsi dal 2016. Mentre gran parte dei crimini è imputabile alla leadership dei fratelli Rajapaksa, la famiglia che ha guidato il paese per quasi un ventennio, secondo l’indagine di ITJP 11 delle persone intervistate sono state presumibilmente arrestate e torturate dopo che Wickremesinghe ha assunto la presidenza nel luglio 2022. Non solo. Su Al Jazeera, Madura Rasaratnam e Ambihai Akilan dell’ong PEARL lanciano l’allarme riguardo alla progressiva militarizzazione dello spazio pubblico, non più solo contro i Tamil.
“Questa stessa tattica è stata impiegata per limitare le proteste nella capitale Colombo. Negli ultimi anni, soprattutto durante il Covid-19, anche le comunità musulmane e cristiane sono diventate bersaglio di violenza e odio“. Imputazioni che gettano ombre su Wickremesinghe, una delle voci considerate più “riformiste” del paese.
Il futuro lascia poco spazio all’ottimismo: il sei volte premier cercherà un nuovo mandato quinquennale alle elezioni del prossimo 21 settembre. Nonostante il malcontento popolare per la gestione economica, il 75enne del Partito nazionale unito è dato ancora come favorito. A sfidarlo, tra gli altri, Namal Rajapaksa, primogenito di Mahinda Rajapaksa. L’ex presidente lo scorso anno è stato sottoposto dal governo canadese a sanzioni per le “gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani” commesse durante la guerra civile.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.