Dopo un prolungato periodo di incertezza politica, la Thailandia ha il suo nuovo primo ministro: Srettha Thavisin, ex magnate dell’immobiliare, istruito negli Stati Uniti, da sempre vicino alla famiglia Shinawatra. È lui l’estrema sintesi di un governo che unisce Pheu Thai, conservatori e militari. E intanto (non a caso) Thaksin Shinawatra torna in Thailandia dopo 15 anni di auto-esilio
A cento giorni dalle elezioni del 14 maggio, la Thailandia ha eletto il suo nuovo primo ministro. Con 482 voti favorevoli (tra cui 152 senatori), 165 contrari e 81 astenuti, nel corso della votazione congiunta di camera e senato del 22 agosto il candidato del Pheu Thai Srettha Thavisin ha superato la soglia necessaria di 374 seggi ed è diventato il trentesimo premier della storia thailandese.
La sua nomina è stata approvata dal re Maha Vajiralongkorn, che ha così ufficializzato l’esito del voto parlamentare e spianato la strada alla formazione del nuovo governo. Che non sarà un governo “del cambiamento”. O almeno non del cambiamento votato dalla maggioranza relativa dei thailandesi, che alle urne avevano premiato il Move Forward, la formazione politica più progressista e radicale del paese, come il partito con il maggior numero di seggi alla camera bassa (151).
IL NUOVO GOVERNO
A guidare il nuovo esecutivo sarà invece il Pheu Thai, arrivato secondo alle elezioni (141 seggi). In una svolta tanto brusca quanto annunciata, a inizio agosto il partito fondato da Thaksin Shinawatra ha abbandonato il progetto di coalizione con il Move Forward e dato il via a una serie di negoziazioni per formare un’alleanza con le forze politiche legate all’establishment conservatore e filo-militare.
L’esito positivo dei colloqui ha portato alla nascita di una coalizione di undici partiti e 314 seggi che racchiude buona parte del governo uscente guidato dall’ex generale golpista Prayut Chan-o-cha, fatta eccezione per il Partito Democratico. L’alleanza che ha sostenuto Srettha comprende infatti il Bhumjaithai (BJT) dell’ex ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, che potrebbe diventare il prossimo ministro dell’Interno, e i due partiti dei militari, il Palang Pracharat (PPRP) dell’altro generale golpista Prawit Wongsuwon e lo United Thai Nation (UTN) del premier uscente Prayut, che ha però annunciato di volersi ritirare dalla politica.
Di fatto, il Pheu Thai ha stretto accordi con quelli che fino al 14 maggio scorso erano i suoi più acerrimi nemici. Nel corso degli ultimi vent’anni il partito dei Shinawatra è stato estromesso dal potere due volte a seguito di colpi di Stato dell’esercito (2006 e 2014), e i suoi leader sono stati condannati per corruzione e abuso di potere dai tribunali legati ai militari. Il BJT è invece nato nel 2008 dopo una scissione interna al Pheu Thai, diventando da allora per i sostenitori dei rossi un simbolo di tradimento e di affiliazione al potere conservatore. Inoltre 16 deputati su 25 dello stesso Partito Democratico, un tempo avversario numero uno dei Shinawatra e oggi in piena crisi, hanno votato a favore della nomina di Srettha contravvenendo alla linea di astensione del partito.
Si tratta di un capovolgimento di quanto promesso prima delle elezioni. In piena campagna elettorale Srettha – così come tutti i vertici del Pheu Thai – aveva escluso un’alleanza con i militari. Lunedì, prima del voto, ha chiesto invece ai thailandesi di «dimenticare» quelle parole per il bene della Thailandia. Il Pheu Thai sostiene di non aver avuto alternative, dato che il senato (nominato dai militari) avrebbe impedito a una qualunque coalizione comprendente il Move Forward di governare. Per formare un esecutivo bisognava dunque arrendersi al compromesso con le forze conservatrici in nome della “riconciliazione nazionale“. E così è stato.
CHI È SRETTHA THAVISIN
Nonostante gli scetticismi, il nuovo primo ministro si è impegnato a fare in modo che la coalizione rispetti il programma elettorale del Pheu Thai, che ha fatto dell’economia una «priorità» da affiancare a politiche più progressiste e democratiche, come l’emendamento della costituzione e la fine della coscrizione obbligatoria.
Srettha è il principale promotore del “portafoglio digitale”, un sussidio di 10.000 baht (270 euro) promesso dal suo partito a tutti i maggiori di 16 anni, che andrebbe ad aggiungersi a un aumento del salario minimo. In campagna elettorale ha dichiarato che avrebbe spinto per allargare i mercati dell’export thailandese in Africa e Medio Oriente e per stringere più accordi di libero scambio (su tutti, quello con l’Unione Europea), dicendosi contrario anche al decoupling tra Cina e Stati Uniti. «Non credo nel lavorare con le singole nazioni», ha affermato in un’intervista al Nikkei.
Membro di una famiglia ben connessa all’interno dell’élite thailandese, Srettha, 61 anni, ha studiato negli Stati Uniti economia e finanza (si è laureato all’Università del Massachusets e ha preso un master alla Claremont Graduate School in California), e una volta tornato in Thailandia negli anni ’90 è diventato presidente di Sansiri, azienda di famiglia che è diventata una delle più grandi società del settore dell’immobiliare thailandese. Al contrario di molti suoi colleghi imprenditori, Srettha si è spesso esposto politicamente sui social e non solo, diventando uno degli uomini di fiducia degli ex premier Thaksin e Yingluck Shinawatra. A novembre dell’anno scorso si è infine unito al Pheu Thai, dimettendosi da CEO di Sansiri due mesi prima delle elezioni.
In mezzo alla prolungata crisi politica, il PIL del paese è cresciuto solo dell’1,8% nel secondo trimestre del 2023, ben al di sotto delle attese. Per questo, secondo Bloomberg, vista la sua carriera imprenditoriale e le promesse di stimolare l’economia thailandese attraverso la spesa pubblica, gli investitori dovrebbero accogliere positivamente la nomina di Srettha a premier. E si parla di un suo possibile doppio ruolo anche come ministro delle Finanze. Diverso è il discorso sul piano prettamente politico. Il nuovo primo ministro non ha esperienza politica, né una base di sostegno forte sia dentro il partito che nell’elettorato. Ed è un dettaglio non da poco per un premier che dovrà tenere in piedi una coalizione potenzialmente molto fragile e impopolare (un sondaggio su un campione di 1.310 cittadini ha registrato circa il 63% di disapprovazione).
A dispetto del discreto risultato alle urne, per la prima volta in vent’anni il Pheu Thai non ha vinto le elezioni. Questo rende Srettha un primo ministro molto più debole dei suoi predecessori eletti con il partito dei Shinawatra, arrivati sulla poltrona con enormi mandati popolari e circondati da una sorta di aura di invincibilità. E in un’ulteriore minaccia alla sua legittimità, Srettha è stato accusato di evasione fiscale e pratiche illecite durante la sua attività alla Sansiri. Il nuovo premier dovrà quindi dimostrare di saper controllare un governo in cui il Pheu Thai, nonostante sia il partito più grande della coalizione, si trova di fatto in minoranza rispetto a potenziali accordi tra BJT, PPRP e UTN, che insieme contano 147 seggi. Ci si chiede allora quanto Srettha riuscirà a implementare le politiche promesse, e se a muoversi dietro di lui possa esserci una figura ben più navigata come Thaksin.
IL RITORNO DI THAKSIN
Non è un caso, infatti, che il giorno della nomina di Srettha a premier sia stato anche quello del ritorno in Thailandia dopo quindici anni di Thaksin. Il fondatore del Pheu Thai si trovava in esilio auto-imposto dal 2006 (salvo un breve rientro nel 2008), ovvero da dopo il colpo di Stato che lo aveva estromesso dal potere, a cui erano seguite le successive condanne a un totale di dodici anni di carcere. Che Thaksin ha sempre dichiarato essere legate a motivazioni politiche. Il suo rientro in patria ha scatenato una serie di speculazioni su un suo eventuale accordo con i militari per fargli ottenere il perdono reale, che potrebbe ricevere proprio in cambio della formazione del governo tra Pheu Thai e conservatori. E del conseguente confinamento del Move Forward all’opposizione.
Una volta atterrato a Bangkok, accolto da centinaia di suoi sostenitori, Thaksin è stato trasferito prima alla Corte Suprema (dove è stato formalmente condannato a otto anni: un reato è caduto in prescrizione e un’altra sentenza è stata ridotta da cinque a tre anni) e poi in prigione. Viste alcune sue condizioni mediche, nella notte è stato poi spostato all’ospedale di Bangkok. Secondo la maggioranza degli osservatori, tra cui l’analista Napon Jatusripitak, Thaksin non sarebbe tornato se non avesse prima «ottenuto delle rassicurazioni che non sconterà l’intera sentenza in carcere».
In tutti questi anni Thaksin è rimasto uno dei poli della politica thailandese. Da sempre osteggiato dall’establishment, oggi è diventato una risorsa. «Il solo fatto che il perdono di Thaksin sia una possibilità indica quanto i conservatori temano l’ascesa del Move Forward», ha scritto Sebastian Strangio del Diplomat. Su questa minaccia comune e sull’amnistia all’ex primo ministro si gioca il futuro del nuovo governo, e quindi della Thailandia. «Senza il perdono a Thaksin non ci sarà alcuna riconciliazione tra il Pheu Thai e l’establishment», ha dichiarato l’esperto Thitinan Pongsudhirak al Nikkei.
Articolo a cura di Francesco Mattogno