La domanda resta sempre la stessa. Come ci sono finite delle pallottole con il marchio della Cheddite di Livorno nei diversi luoghi del Myanmar teatri di scontro tra la popolazione civile e i militari di Tatmadaw? Come è potuto accadere, visto che non dall’ultimo colpo di Stato militare del febbraio scorso, ma addirittura dagli anni ’90, l’Ue ha imposto un embargo sulle armi che vieta anche alle aziende italiane di vendere armi all’ex Birmania?
È il tema dell’incontro privato e virtuale con responsabili della Farnesina che si terrà domani su richiesta di Amnesty Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo, Italia Birmania-Insieme, Opal e Atlante delle guerre che per primi hanno sollevato dubbi e domande sulla questione dopo i primi ritrovamenti di bossoli della Cheddite in Myanmar.
Dubbi e domande cui sono seguite ben due interrogazioni parlamentari sinora senza risposta. Un capitolo su cui il manifesto ha raccolto nuove informazioni che gettano una nuova inquietante luce sulla vicenda che collega Livorno alla Turchia e le munizione Cheddite addirittura a ritrovamenti sulla recente scena bellica siriana.
LA VICENDA CHEDDITE. Nell’ultimo Rapporto sull’esportazione di armi del governo italiano non è presente alcuna esportazione diretta di armi o munizioni da parte di una società italiana in Myanmar. E non da ora, ma negli ultimi 30 anni. Anzi. Nei registri, non sarebbe addirittura presente alcuna richiesta in tal senso da parte della Cheddite. Almeno questo è quanto risulta a Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal), che ha analizzato quei dati. Una possibile spiegazione potrebbe a questo punto venire dall’ultimo bilancio che la società livornese ha depositato presso la Camera di commercio.
LA VISURA CAMERALE dell’azienda rivela infatti che fino a qualche anno fa la franco-italiana Cheddite di Livorno deteneva delle partecipazioni nella turca Yavasçalar (Yaf), azienda che da circa vent’anni produce proiettili e munizioni per armi leggere sussidiaria del colosso Zsr Patlayici Sanayi AS. Quelle quote detenute dai franco-italiani nella società anatolica e poi da questi rivendute, gli avrebbero così consentito di inviare in Turchia il loro pregiato bossolo d’ottone marchiato Cheddite in quegli stabilimenti non soggetti ad embargo.
Dai dati sul commercio internazionale del nostro Istituto Nazionale di Statistica (Istat) risulta che nel 2014 da Livorno, dove come detto ha sede la Cheddite, sono state esportate verso la Turchia armi e munizioni per un valore di 363.961 euro. Beretta è poi andato a spulciare anche i dati presenti nel database Comtrade Onu, scoprendo così che, sempre nel 2014, la Turchia ha esportato in Myanmar 7.177 fucili sportivi e/o da caccia per un valore di quasi 1,5 milioni di dollari. Inoltre ha esportato 46mila munizioni del valore di 223mila dollari «che è compatibile – dice Beretta a ilmanifesto – con le esportazioni di munizioni da Livorno alla Turchia».
LEGAMI ITALO-TURCHI. Basta cercare in Rete, per trovare venditori online del Paese governato col pugno di ferro dal sultano Recep Tayyip Erdogan che propongono liberamente sul web ai propri clienti stock di cartucce Cheddite-Yavasçalar. Comprese quelle da 12 mm poi trovate in Myanmar.
La Turchia, non essendo un Paese europeo, non ha infatti limitazioni nella vendita verso Paesi che sono invece interdetti all’Italia o agli altri Paesi europei. Detto ciò, è chiaro che la Cheddite potrebbe aver venduto quelle munizioni alla Yavasçalar (o i componenti per assemblarle) senza poi sapere dove sarebbero andare a finire. Ma un dato di fatto è il rapporto tra le due società che, almeno negli anni scorsi, è andato ben oltre la semplice fornitura di materiale, visti i rapporti diretti anche a livello societario che intercorrevano tra loro.
Che le cartucce da caccia di quel calibro potessero essere utilizzate addirittura in una guerra, senza dover fare i conti con l’embargo internazionale occidentale e sfruttando le triangolazioni con un Paese terzo, se n’era accorto anni fa anche il Graduate Institute of International and Development Studies (Iheid) di Ginevra.
NELL’APRILE 2014, questo centro di ricerca indipendente accademico elvetico (finanziato dai governi di Svizzera, Australia, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, oltre che dall’Unione Europea), aveva diffuso un’interessante rapporto che catalogava 70 munizioni di piccolo calibro trovate nel teatro di guerra siriano (Following the Headstamp Trail. An Assessment of Small-calibre Ammunition Documented in Syria). Al suo interno, fotografie di bossoli, imballaggi e della relativa documentazione di supporto, tra cui, oltre a quelle siriane, cinesi, iraniane, kirghise e dell’Europa dell’Est (russe, ceche, rumene, slovacche, ucraine), c’erano anche queste da 12 mm prodotte dalla Yavasçalar per conto della livornese Cheddite.
PISTA SIRIANA. Per l’Iheid potrebbe trattarsi di «materiale governativo», probabilmente rimediato dal regime siriano, allora in grande difficoltà, sul mercato internazionale delle armi prima della discesa in campo di Russia e Iran al fianco del dittatore Bashar al-Assad che ha poi come sappiamo cambiato le sorti del conflitto. Spegnendo così la rivoluzione scaturita anche in Siria dalle cosiddette Primavere Arabe.
Perché anche se è «difficile attribuire le cartucce ad una o all’altra parte», si legge ancora nel report 2014 dell’Iheid, è invece «probabile che gran parte delle munizioni documentate, anche se certamente non tutte, siano originariamente state fornite alle forze governative siriane». Ma il centro di ricerca elvetico una certezza ce l’ha: sulla base delle munizioni, del packaging e dei documenti rinvenuti «i produttori delle munizioni sono ben identificabili e può essere individuata anche la catena di fornitura». In altre parole, il distributore finale. In questo caso la Yavasçalar turca.
Di Alessandro De Pascale ed Emanuele Giordana