Anche la Cina ha un problema di liquidità. Per attirare nuovi capitali sembra che Pechino voglia puntare sulle “vendite allo scoperto”, una pratica speculativa sotto accusa in Occidente. Intervista a Niccolò Mancini, broker di Piazza Affari.
Secondo indiscrezioni – riportate dal Financial Times e dal Wall Street Journal – entro marzo, 25 operatori finanziari potranno condurre operazioni “al ribasso”, scommettere cioè sul calo di un determinato titolo o pacchetto di azioni.
Di solito, questa pratica è associata alla speculazione pura, quella cioè che non crea valore a sostegno di un’impresa o di un sistema-Paese, ma tutela semplicemente le rendite creando denaro dal denaro.
Non solo: lo short-selling può indurre a comportamenti dannosi per lo Stato e la collettività (si veda la corsa alle vendite di titoli del debito pubblico italiano indipendentemente dalle manovre “lacrime e sangue”).
Sembra quindi strano che la Cina, da sempre molto attenta a gestire “politicamente” l’economia, scelga di introdurre una pratica che potrebbe minarne le riserve e la stessa autonomia finanziaria. Ma non è questo il parere di Niccolò Mancini, broker di Piazza Affari.
Cosa significherebbe un’apertura della Cina alle vendite allo scoperto?
Che anche dal punto di vista dei mercati si adeguano all’Occidente. Non si guadagna solo sui rialzi, ma anche sui ribassi, questa è una regola fondamentale dei mercati e anche i cinesi introducono la possibilità di farlo.
Rispieghiamo brevemente come avviene una vendita allo scoperto: A possiede dei titoli che valgono 100, B vuole guadagnarci; se li fa prestare da A corrispondendogli un interesse e li vende scommettendo sulla loro successiva perdita di valore.
Se questi effettivamente perdono valore, lui li ricompra a 80 e il suo guadagno è la differenza tra il prezzo a cui li ha venduti (100) e quello a cui li ha ricomprati (80, oltre all’interesse che deve corrispondere ad A). Così facendo, si crea liquidità sia per B, sia per A.
Ma introducendo queste pratiche, i cinesi non attirano la speculazione a casa loro, perdendo il controllo del proprio mercato finanziario?
Il problema legato alla speculazione e all’attacco dei debiti pubblici non è tanto quello delle vendite allo scoperto, che a mio avviso sono lecite: se tu ritieni che un titolo sia sopravvalutato, è legittimo scommettere sul fatto che non valga quel prezzo.
Un guaio sono le cosiddette vendite “naked”: cioè quando un operatore vende i titoli senza possederli e senza neppure farseli prestare, il che crea di solito anche la grana delle mancate consegne dei titoli stessi.
Un altro problema si verifica quando le vendite allo scoperto si associano a pratiche di insider trading, per cui uno mette in giro la voce che un titolo sta crollando e poi specula su quello. Ma in entrambi i casi, se si fanno rispettare le regole e si esercitano controlli, tutto si risolve.
Il vero problema sono i prodotti derivati con i quali, in Occidente, ci siamo legati mani e piedi. Quindi bisognerebbe capire cosa la Cina intenda fare con i derivati.
Quali sono invece i vantaggi?
Il vantaggio di introdurre le vendite allo scoperto è quello di rendere il mercato più liquido, cioè di far circolare più denaro. Molto semplicemente, la liquidità “gira” non solo quando il mercato è al rialzo ma anche quando è al ribasso.
In una fase in cui c’è una crisi così marcata dell’area euro e in cui anche l’America attira meno investimenti, c’è una forte spinta a investire nei Paesi Bric [acronimo per gli “emergenti” Brasile, Russia, India, Cina, ndr]. Per la Cina, adeguare le logiche di mercato a quelle occidentali significherebbe attirare sempre più i capitali.
Ormai io di azioni italiane ne gestisco quasi zero, gli investimenti prendono sempre più la via dei Bric. Si investe attraverso gli exchange-traded fund [particolari fondi comuni d’investimento, ndr] e non sul singolo titolo.
Se gestisci un portafoglio, ormai non puoi non inserire nel pacchetto anche azioni indiane o brasiliane. Con questa mossa, sembra che anche la Cina voglia attirare sempre più investimenti. Diciamo che stanno approfittando della sfiducia che c’è sull’Europa.
A questo punto, i cinesi non si espongono alla possibilità che anche il loro debito pubblico venga preso di mira?
In teoria sì, ma evidentemente si ritengono tanto bravi e furbi da non diventare schiavi dei derivati, come invece siamo noi. Tra gli investitori percepisco molto fermento e interesse intorno ai Bric.
A proposito della Cina, c’è però qualche titubanza dovuta al controllo che lo Stato continua a esercitare. A Pechino devono avere colto questo clima e agiscono di conseguenza, aprendosi alle pratiche operative occidentali.
[Articolo pubblicato da E il mensile. Foto credit: depositphotos.com]* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano