Esattamente un anno fa ad Urumqi, capitale della regione nord occidentale del Xinjiang, una protesta anti discriminazione faceva confluire in strada alcune migliaia di uiguri, etnia di religione musulmana. Gli scontri con la polizia hanno portato all’uccisione di oltre centocinquanta persone e il ferimento di altre ottocento. Una strage.
Per descrivere episodi del genere, in cinese viene utilizzata la parola 事件shìjiàn, che letteralmente significa “incidente”, ma sta piuttosto a significare incidenti di massa, proteste popolari, scontri con la polizia. Ad esempio “shìjiàn del 4 giugno” è il modo con cui il governo cinese si riferisce al massacro di piazza Tiananmen del 1989. Secondo China Election nel solo 2009 ci sono stati oltre ottantamila incidenti in tutto il paese.
Sono proteste spontanee che si riscontrano specialmente nelle zone rurali e hanno all’origine un malcontento sociale fortemente in crescita: nascono da dispute nei confronti di funzionari locali corrotti, espropri forzati di abitazioni o terreni, compensi non pagati, ingiustizie ai danni dei cittadini, soprusi compiuti dal potente di turno e coperti dalla polizia complice e corrotta. Vedono in gioco due protagonisti: l’autorità dello Stato da una parte e gruppi di civili dall’altra. Solitamente contadini o migranti dalle zone rurali. Ma ai quali si affiancano (per solidarietà o per forme simili di malcontento nei confronti dello stesso target) studenti, operai, artisti e altri gruppi più o meno organizzati della società civile.
Il rapido sviluppo economico degli ultimi trent’anni non poteva non portare a nuove stratificazioni sociali e divari tra le varie classi sociali cinesi. Un gap sempre più preoccupante, che genera forti tensioni e l’accumularsi di una rabbia popolare che non tarda mai a farsi sentire alla prima occasione. Con risultati spesso tragici, quali l’uccisione di agenti di polizia o burocrati corrotti, l’arresto di decine di persone, saccheggi ad uffici pubblici poi dati alle fiamme. Una situazione che allarma non poco i quadri del governo centrale. Secondo il rapporto “Società della Cina: analisi e previsioni 2010”, fornito dall’illustre accademia cinese delle scienze sociali (CASS in inglese), il numero totale di proteste popolari è in aumento e ha alla radice il divario crescente tra classi più e meno agiate.
In particolare i motivi delle sommosse sono legati a tre ambiti, quali gli espropri, l’uso della terra e le riforme industriali. Secondo i dati del ministero della pubblica sicurezza vi sono più di duecento casi di protesta al giorno in tutto il paese.
Gli esempi più lampanti che vengono in mente sono forse quelli che recentemente hanno fatto il giro del mondo: gli scioperi e le proteste nelle fabbriche del Guangdong da parte di operai cinesi contro le multinazionali straniere per l’aumento dello stipendio e il miglioramento delle condizioni di lavoro. Ma molti altri sono gli esempi che passano in sordina, uscendo a volte allo scoperto grazie ai blog di internauti cinesi o video amatoriali realizzati sul posto con un telefonino portatile.
Solo per citare i più noti, partiamo dal caso accaduto nel giugno 2008 nel Guizhou (provincia meridionale della Cina) della quindicenne stuprata e uccisa dal figlio di un potente funzionario locale. La polizia ha cercato di coprire l’omicidio, ma i familiari non si sono arresi fino a quando diecimila dimostranti si sono uniti in protesta contro la versione ufficiale fornita dalle autorità: tre uffici del governo e dodici auto sono stati bruciati, un manifestante è morto e centocinquanta persone sono rimaste ferite.
Nel giugno del 2009, invece, alcune migliaia di cittadini di Shishou (provincia centrale dello Hubei) hanno attaccato con pietre e bottiglie agenti di polizia nel tentativo, durato diversi giorni, di proteggere il cadavere di un ventiquattrenne morto in circostanze misteriose. Il cadavere è stato vigilato giorno e notte dal padre, all’interno dell’hotel dove il ragazzo lavorava. Secondo la versione ufficiale si è trattato di suicidio, ma i familiari accusano governo locale e polizia di avere titoli azionari dell’hotel e voler far passare in sordina la morte dell’impiegato.
Durante un incontro nella provincia settentrionale del Jilin per la cessione dell’azienda statale Tonghua Steel Group, un gruppo di operai ha preso e massacrato di botte uno dei dirigenti. A fronte di un accordo tra aziende che prevedeva il licenziamento di alcune migliaia di lavoratori, la sorte peggiore è toccata proprio all’alto funzionario della Tonghua.
Per concludere, è di pochi giorni fa la notizia di una manifestazione nella prefettura di Shigatse, regione autonoma del Tibet, dove a seguito del lancio di sassi contro le auto delle polizia, trenta tibetani sono stati arrestati. I dimostranti protestano dallo scorso aprile contro i lavori in zona di una compagnia cinese che, a detta dei residenti locali, compromette le riserve di acqua e il pascolo degli animali con le sue estrazioni minerarie nel sottosuolo.
Il governo centrale li cataloga appunto come shìjiàn, serie di “incidenti” che vanno ad ingrassare una lista sempre più lunga e preoccupante. I quadri centrali già da anni hanno dato disposizione ai funzionari locali di fare ogni sforzo per prevenire incidenti di massa. I media cinesi, dal canto loro, ne parlano solo quando, date le dimensioni della protesta e le relative conseguenze, non ne possono fare a meno. Ed è per questo che nei blog e nei siti non ufficiali le notizie corrono di “bocca in bocca”, portando a volte alla partecipazione diretta anche comuni cittadini e internauti non coinvolti nella vicenda.
Certo, amministrare un paese di quasi un miliardo e mezzo di persone non è impresa facile per nessun governo al mondo, democratico e meno che sia. La parola “ordine sociale” è ancora l’imperativo che circola nei palazzi del potere a Pechino. Con l’aumento del divario sociale, della criminalità e del malcontento popolare, proteste come queste non fanno certo fatica a venire fuori, ma proprio per questo spesso ci si aspetta la dura risposta delle autorità.
E qui la memoria torna ai giorni subito dopo il massacro di Tiananmen, quando Deng Xiaoping disse alla stampa straniera che la soppressione di qualche centinaio o migliaio di studenti non è nulla se si calcola che in un paese di un miliardo di persone, se dieci milioni di persone protestano non sono che l’uno per cento del totale della popolazione. Ventuno anni sono passati da allora e se la risposta del governo non è cambiata, è invece cambiata la struttura della società cinese: un numero sempre maggiore di studenti, avvocati, attivisti, accademici, artisti, personaggi dello spettacolo e internauti sembra seguire con sempre più interesse i cosiddetti “incidenti” di massa, scambiando informazioni e ponendo questioni sulle reazioni governative alle richieste popolari di giustizia ed equità sociale.
[Foto da http://libcom.org]