Il 4 giugno, una data di cui in Cina è meglio non parlare. Alla vigilia dell’anniversario delle proteste di piazza Tian’anmen, il South China Morning Post intervista l’anziano dissidente ex funzionario di alto grado. Che oggi parla di "archiviare" il modello di crescita di Deng e del male della repressione politica. Come ogni anno arriva, immancabile, l’anniversario del massacro di piazza Tian’anmen: il nefasto 4 giugno 1989 che mise fine ai sogni della “primavera di Pechino”, di oltre vent’anni in anticipo rispetto a quelle arabe. Come ogni “35 maggio” – è questo il nome utilizzato dai netizen cinesi per aggirare la censura – si cercano novità, temi, punti di vista particolari da cui leggere l’evento ancora tabù nel discorso pubblico cinese.
Quest’anno l’occasione è offerta da Bao Tong, il funzionario con il grado più alto ad essere arrestato ai tempi del movimento di Tian’anmen, che in un’intervista telefonica al South China Morning Post afferma che una riflessione sul 1989 è irrinunciabile, se la Cina vuole progredire. Al tempo degli eventi, Bao era direttore dell’ufficio di Riforma Politica del Partito e membro del Comitato Centrale. Oggi ha 81 anni.
Arrestato il 28 maggio del 1989, pochi giorni prima del massacro, fu condannato per avere diffuso “segreti di Stato” e “incitato alla sovversione”; quindi detenuto per otto anni e infine messo agli arresti domiciliari dal momento del suo rilascio, nel 1997. Per comunicare con lui, ancora oggi, bisogna passare attraverso agenti di sorveglianza. Ha sempre negato le accuse che gli furono rivolte: quella di avere dato notizia della legge marziale prima che venisse diffusa ufficialmente e, in seguito, di avere comunicato al suo staff la rimozione dell’allora segretario del partito Zhao Zhiyang prima che venisse formalizzata.
Oggi sostiene che, per guardare avanti, la Cina debba mettere in soffitta Deng Xiaoping, così come ha già fatto con il Mao della Rivoluzione Culturale.
Deng fu il grande artefice delle “riforme e aperture” che negli ultimi 30 anni hanno trasformato il volto del Dragone. Sul piano politico, però, il piccolo-grande timoniere è accusato da Bao di essere il principale responsabile del massacro che si consumò il 4 giugno 1989.
“Così come la Rivoluzione culturale, anche il 4 giugno deve essere completamente ripudiato […]. Così come Mao è il simbolo della Rivoluzione Culturale, Deng lo è della repressione del 4 giugno”, dice Bao nell’intervista.
Rispetto alla nuova leadership, l’ottuagenario ex funzionario afferma di essere stato favorevolmente colpito dall’enfasi che il presidente Xi Jinping pone sull’importanza dell’adesione alle norme costituzionali, ma si dichiara comunque “perplesso” per quello che appare un inasprimento del controllo ideologico verificatosi nelle ultime settimane.
In particolare, Bao fa riferimento alla circolare diffusa recentemente nelle università che impone di evitare sette argomenti tabù durante le lezioni, tra cui libertà di stampa, diritti civili, valori universali, indipendenza della magistratura e “gli errori del Partito comunista”. Anche su Piazza Tian’anmen, ricordiamolo, non esiste alcun dibattito né pubblico né accademico.
Pure alcune osservazioni su Mao Zedong che avrebbe di recente espresso Xi Jinping in una riunione di partito, vanno di traverso al vecchio Bao. Secondo il Giornale di Guangming, Xi avrebbe infatti detto che se Mao fosse stato totalmente screditato all’indomani della Rivoluzione Culturale, il Partito e il sistema socialista sarebbero stati rovesciati e il Paese sarebbe entrato in una fase di disordine e anarchia.
Bao non è per niente d’accordo e ritiene che la messa a tacere delle voci dissidenti ha avuto conseguenze disastrose: “Se si tappa la bocca a un centinaio di persone, possono esserci ancora centinaia, migliaia, decine di migliaia di bocche che continuano a parlare. Ma se si silenziano 1,3 miliardi di persone, è spaventoso”. Infatti, “se tutte queste bocche stessero ancora parlando, credo che [la nostra società] non sarebbe così depravata come è ora. La corruzione, lo sfruttamento, la mancanza di rispetto per la legge hanno avuto l’appoggio di carri armati e mitragliatrici”.
È un commento, quello di Bao, che arriva proprio nel momento i cui il “modello Deng” sembra scontare i propri limiti. La Cina “fabbrica del mondo” non può più garantire i tassi di crescita su cui si è basato il tacito accordo tra il Partito e i cinesi. In trent’anni, c’è chi si è arricchito geometricamente e chi ancora stenta, in un Paese dove la diseguaglianza è esplosa oltre i livelli di guardia. Ora, il rischio è che non ci sia più abbastanza ricchezza per attirare nella sfera del benessere anche chi ha atteso pazientemente.
Per fare un’ulteriore passo in avanti, il Dragone ha bisogno di una crescita diversa, che comporti qualità delle produzioni e, quindi, un alto tasso di innovazione. Il che significa probabilmente anche creare le condizioni per incubare idee inedite per problemi inediti. Cioè, lasciar circolare il pensiero più liberamente. Anche su Tian’anmen.
Non solo: la mancanza di uno Stato di diritto e dell’esercizio di un controllo da parte dell’opinione pubblica lascia ai funzionari quel margine di arbitrio che ha portato la corruzione a livelli insostenibili. Bao punta il dito contro il fantasma di Deng Xiaoping. Il blocco della libertà di parola dopo il 4 giugno è responsabile della corruzione dilagante, della disuguaglianza, del degrado ambientale e della crisi morale di oggi. E leader supremo Deng – conclude il vecchio funzionario – avrebbe dovuto prevedere queste conseguenze.
[Scritto per Lettera43; foto credits: theepochtimes.com]