Suo padre era insieme a Mao a Yan’an e quando la prima volta uscì dalla Cina era già il 1974. Il suo viaggio negli Stati Uniti lo convinse ancora più della giustezza delle sue idee marxiste. Fred Engst racconta a China Files come ha vissuto il movimento di Tian’anmen e molto altro: "dopo il 1989 [gli operai] capirono di non essere più la classe che governava il paese”.
E’ l’unico americano che ha avuto prima un nome cinese e poi ha finito per accettare anche quello occidentale. Yang Heping – nome consigliato alla madre niente meno che dalla vedova di Sun Yat-sen – o Fred Engst, oggi insegna Economia alla University of International Business and Economics di Pechino. I suoi genitori nel 1940 si sono trasferiti in Cina per partecipare alla rivoluzione socialista, suo padre era insieme a Mao a Yan’an.
Lui è nato a Xian, dove i coniugi Engst avevano messo a disposizione della Rivoluzione le proprie conoscenze scientifiche in materia agricola. Ha vissuto in Cina, imparando a stento l’inglese, fino al 1974 quando per la prima volta visitò gli Stati Uniti. “Ero imbevuto di teoria marxista, mi racconta nel suo studio alla Jingmao Daxue, e quando arrivai negli Stati Uniti, mi resi conto che Marx aveva davvero ragione”.
Engst ha molte storie da raccontare, a cominciare dalla Rivoluzione Culturale, che lui visse a Pechino in una fabbrica che produceva legna. “E’ stato il momento più emozionante per la classe operaia nella sua storia, credo. E’ stato il tentativo di fare in modo che la classe operaia potesse governare e guidare una nazione. Un tentativo fallito, perché di fatto la Rivoluzione Culturale durò solo tre anni e poi venne affossata da lotte interne e fazioni, ma in quel primo periodo, per quanto confuso, la sensazione era veramente quella di imparare a governare e insegnare a quello strato burocratico che ci sarà sempre, in ogni rivoluzione, come servire veramente il popolo, insegnandogli un impegno vero a esaudire i bisogni di una classe storicamente subalterna”.
Facendo un balzo in avanti, dopo la Rivoluzione Culturale, arriviamo ad un altro evento spartiacque, di cui ricorre proprio oggi l’anniversario, ovvero il massacro degli studenti da giorni in protesta sulla Tien’anmen, il 4 giugno 1989. “Quello che ho visto io – racconta Engst – era una massa di gente che protestava perché si opponeva alle Riforme, in modo consapevole o meno. Si opponevano alla corruzione e all’abuso di potere, all’inflazione, agli scompensi di quel cambiamento economico. Gli studenti spingevano per la democrazia e anche una sorta di occidentalizzazione, ma quella fu la scintilla, come si suol dire. Le ragioni per cui la gente supportava la protesta non erano le richieste degli studenti per la democrazia. Io ero lì e la gente diceva, “se gli studenti continuano a parlare di cose astratte, non li seguiamo. Se si occupano di cose che ci riguardano, ovvero il miglioramento delle nostre condizioni di vita, allora li appoggeremo”. Gli studenti rimasero all’interno di una battaglia elitaria, destinata a fallire”.
In quei giorni del 1989, però, secondo Engst c’era un sentimento che gli ricordava proprio alcuni momenti della Rivoluzione Culturale. E forse anche per questo il 1989, le sue proteste, il suo proliferare di richieste è un altro rimosso della storia recente: “si aveva la sensazione, come durante la Rivoluzione Culturale, di poter fare delle richieste perché c’era la certezza di appartenere allo Stato, di esserlo. Si pensava davvero che lo Stato fosse rappresentato a pieno da quella forza che protestava e chiedeva un trattamento egualitario ad un’élite chiusa nel suo guscio”. Nel 1989, nel bel mezzo delle Riforme, “gli operai avevano ancora una forte coscienza di classe, si sentivano ancora i protagonisti della vita politica. Dopo il 1989, capirono di non essere più la classe che governava il paese”.
Cos’era successo e come si è arrivati a oggi è storia recente, sulla quale Engst, da professore di economia ha la sua visione. Dalla Cina comunista a oggi è cambiato tutto. Pechino con le politiche neoliberiste adottate prima da Deng Xiaoping e poi da Jiang Zemin, ha sconvolto l’assetto sociale del paese. Il modo attraverso il quale è cambiato nel tempo il concetto di classe e la stessa classe dei lavoratori, costituisce ancora oggi un terreno di confronto accademico e non solo, molto rilevante nella lettura sociale della Cina contemporanea.
“Intanto bisogna specificare che da un lato ci sono i contadini, dall’altra gli urbani. I contadini non hanno una grande coscienza di classe e dopo che venne eliminata la collettivizzazione delle terre divennero dei veri e propri piccoli proprietari terrieri. Per quanto riguarda gli “urbani”, quelli che provengono dalla campagna, parliamo di 200 milioni di persone, arrivano in città con il sogno imposto di diventare prima o poi dei commercianti, di trasformarsi in petit bourgeois diremmo. Poi ci sono i lavoratori cittadini che invece hanno una coscienza di classe molto più forte e si sentono operai in tutto e per tutto, sono meno contraddistinti dal sogno di mettersi in proprio”.
Anche perché molti dei predecessori di questa nuova generazione di lavoratori, espulsi dalle grande aziende di stato durante le privatizzazioni dei primi anni ’90, si sono dovuti inventare commercianti per necessità. “Per necessità esatto, perché la loro ambizione – come ricordavamo a proposito del 1989 – era lavorare e migliorare le proprie condizioni di vita”.
Dalla storia al mondo contemporaneo, la Cina appare di nuovo di fronte ad una nuova ondata di privatizzazioni e politiche neoliberiste, dalle quali ci si chiede che paese uscirà e dove sono le nuove – se ci sono – scintille di rivolta. Ad esempio, proprio le aziende di stato sono nuovamente nel mirino: “su questo aspetto bisogna chiarire che le aziende statali in Cina non sono gestite come le aziende statali in Occidente. In Cina, dire Stato significa dire partito, funzionari, esercito. E’ una cricca, per niente trasparente. E ognuno di questi covi di interesse, sviluppa le proprie traiettorie relazionali. La privatizzazione di queste aziende, sebbene potrebbe convenire anche alla Cina è voluta soprattutto dal capitale straniero. Entrare in queste aziende significherebbe controllare interi settori economici nazionali, ma da parte dell’attuale cricca al potere ci sarà sempre una forte resistenza. Non sarà per niente facile questo processo”.
Dalle aziende di stato alla vecchia e classica questione cinese, la terra e l’urbanizzazione: “sicuramente la terra è ancora un problema, specie a causa della parola d’ordine dell’urbanizzazione. Nell’opera di rimozione storica collettiva ci si è scordati che fino al 1982 la terra in campagna non apparteneva allo stato, bensì alle comuni dei villaggi. Dal 1982 è diventata dello stato. E come fanno i soldi senza un sistema di tassazione, gli enti locali? Espropriando terra e vendendola per urbanizzarla. La Cina oggi è di fronte al rischio della più grande bolla immobiliare nella storia, se è vero, come dicono i dati, che il 20 percento delle nuove case a livello nazionale è vuoto. La casa è un investimento ormai. Questo comporta tanti problemi”.
Già perché lo stato come potrebbe ovviare alla bolla? Tassando i cittadini: “ma tassazione senza rappresentanza e trasparenza sulla destinazione dei soldi, non sono concetti che vanno bene insieme. Lo insegna la rivoluzione americana”. Una gatta da pelare, non da poco, ma l’argomento ci ricorda le recenti lotte per la terra di Wukan, il villaggio di pescatori che è insorto contro le autorità: “si tratta – racconta Engst – di una lotta particolare. Nei villaggi ci sono i clan e le loro sono lotte per ottenere una fetta della torta più ampia, non certo per concetti astratti, per i contadini, come democrazia o elezioni”. Ma allora ci si chiede, questa Cina è così forte, da non avere neanche un punto di debolezza? “Si tratta in realtà di un regime fragile, nonostante provi a dimostrare il contrario. Internet, ad esempio, è il suo punto più debole”.
[Scritto per Il Manifesto; foto credits: anewyorkerinbeijing.blogspot.com]