Speciale Tian’anmen – Il ricordo di un Nobel

In by Simone

Le Elegie del 4 giugno sono la testimonianza lucida e disperata ritualizzata per vent’anni a ogni anniversario del tragico eccidio di studenti e cittadini qualsiasi. La traduttrice del volume ci spiega la poetica e l’impegno civile del Nobel per la pace 2010 e l’importanza che il ricordo di piazza Tian’anmen nella sua vita politica (per gentile concessione di Lantana editore).
In Liu Xiaobo, poeta e intellettuale cinese nato nel 1955, Premio Nobel per la Pace nel 2010, le ombre delle madri alla vana ricerca di una tomba, i volti dei carnefici giovani quanto e più delle loro vittime, «l’odore di polvere» e di sangue, «il vuoto delle memorie» del 4 giugno 1989 hanno lasciato tracce profonde che cospargono lo sguardo di «ferite come un pensiero lacerato».

È la testimonianza lucida e disperata, ritualizzata per vent’anni a ogni anniversario del tragico eccidio di studenti e cittadini qualsiasi, raccolta in queste Elegie commosse ma irriducibili nella volontà di memoria. Il poeta si descrive, infatti, come dolorosamente percorso da un ago che, circolando nelle sue vene, tenta attraverso le parole di «ricucire l’oblio di un sogno reciso».

È l’urgenza di non dimenticare che lo spinge a denunciare la «solenne menzogna» del potere e una crudele tradizione di violenta sopraffazione che si annida nella millenaria cultura cinese. Come Lu Xun (1881-1936) e il suo accorato appello «salvate i bambini!», a distanza di quasi un secolo anche Liu Xiaobo si interroga sulle ragioni di questo ciclico sacrificio umano, sulla malattia genetica di una civiltà cannibale che divora i propri figli, «giovane erba immatura».

Da messaggio politico di resistenza (Liu sta scontando una condanna a otto anni per istigazione alla sovversione del potere dello Stato), la poesia si fa riflessione dolente sulle ragioni della morte e della sofferenza, sul senso di colpa dei sopravvissuti e sulla facile smemoratezza del popolo, barattata al prezzo di un corrosivo benessere economico.

A tali sgomente domande sul tradimento delle «anime dei defunti» e sul destino della propria gente, Liu Xiaobo sembra non poter dare risposte definitive, se non la memoria e, sorprendentemente, l’amore, la tenerezza incrollabile per la moglie, Liu Xia, cui offre, unico dono dal carcere, la forza dei sentimenti e delle convinzioni:

«Se mi cavano gli occhi, ti fisserò dalle orbite vuote
Se mi corrodono il corpo, ti abbraccerò col mio odore
Se mi stritolano il cuore, ti ricorderò con le mie fibre»
.

Nelle ultime poesie incluse nella raccolta, a lei dedicate, si consustanzia la verità poetica e umana del testo, ode civile di intenso valore storico, ma anche voce limpida di autentica letteratura.

Scritte fra il 1990 e il 2009, le poesie ripercorrono un sentiero desolato e tormentato di analisi già compiute dallo scrittore nei suoi numerosi saggi di carattere letterario, storico, politico e filosofico. Una produzione vasta e di ampio respiro culturale – solo in parte tradotta in una selezione pubblicata in varie lingue, con il titolo No Hatred No Enemies (Monologhi del giorno del giudizio, in italiano) – rispetto alla quale le Elegie del Quattro giugno costituiscono una sintesi lirica di raro equilibrio tra denuncia e canto.

Liu Xiaobo riesce a liberare lo spirito poetico dai pesanti ceppi della lotta politica, superando i limiti spazio-temporali della Primavera di Pechino in una rappresentazione che restituisce a piazza Tian’anmen e alle sue vittime il senso sacro e universale della storia.

Il valore delle Elegie risiede proprio nel rendere omaggio ai protagonisti sconosciuti della tragedia, studenti e cittadini colpiti per strada e spesso rimasti senza riconoscimento, madri e parenti cui nessun conforto, nessun risarcimento, nemmeno quello del ricordo è stato concesso, spostando su di loro i riflettori che i media solitamente concentrano invece sulle figure politiche di spicco.

L’altro profondo significato del testo è la critica storico-culturale portata da Liu Xiaobo al suo Paese, una pessimistica lettura che riassume, in tono sati – rico e spesso ruvido, le sue riflessioni sulla conformazione autoritaria e repressiva del potere politico in Cina e sugli effetti negativi di un eccezionale e rapido sviluppo economico nel sostituire una forma di materialismo a un’altra senza soluzione di continuità.

Non si sottrae al confronto, anche provocatorio, tra le civiltà, e al tema religioso della morte e del martirio unisce la religione civile della memoria nel tentativo di aprire uno spiraglio di pietas tra le pieghe di una realtà storica e politica cui tale valore sembra estraneo.

Sul piano squisitamente letterario, le Elegie si presentano non come una teoria retorica di testi poetici collegati tra loro dall’atto commemorativo, ma assumono piuttosto l’intensità e l’unitarietà organica di un piccolo poema; la densità lessicale, il ritmo narrativo e incalzante, la potenza delle immagini concrete e simboliche evocate richiamano esperienze poetiche di diversa origine.

Se un riferimento si può convintamente fare alla poesia civica tradizionale, Liu Xiaobo tuttavia si distacca dal motivo antico del funzionario ingiustamente esiliato e che lamenta le sofferenze del popolo; il suo rifiuto dei tradizionali rapporti di potere tra suddito e sovrano è categorico. Suo modello non è il canto romantico di Qu Yuan (340-278 a.C.), poeta esiliato, bensì la voce aspra e inflessibile di Lu Xun: benché di quest’ultimo Liu non condivida la disperata negazione di una risposta religiosa al dolore umano, il suo canto civile sulle anime dei defunti di Tian’an men ne evoca senza dubbio questi versi:

«Sì, le anime dei giovani mi si erigono davanti: sono diventate aspre, o lo diventeranno; eppure amo queste anime che sanguinano e soffrono in silenzio, perché mi fanno sentire che sono al mondo, che sono vivo fra gli uomini».

Il corpo dello scrittore e la sua voce, confinati dietro sbarre fisiche e spirituali, sono materia e fonte di poesia, ma soprattutto lo sono gli sguardi e gli affetti: «Lo sguardo era acuto, tagliente più di una falce affilata», scriveva Osip Mandel’štam (1891-1938), anch’egli segregato in una cella per ragioni politiche; sembra far – gli eco Liu, il cui «sguardo cosparso di cicatrici», «soffocato dalla benda» diviene lo «sguardo indignato del mondo».

E quando nella dedica affettuosa alla compagna sottoposta alla crudele lontananza della prigione, Liu mormora

«e tu di nuovo devi avviarti da sola
senza un corpo
senza memorie
con la tua vita svuotata
avviarti per strada col peso
dei libri da portargli
»,

rammentiamo le parole del poeta russo:

«Le tue gracili spalle si arrosseranno, sotto fruste e flagelli
…bruceranno nel gelo… 
E io per te brucerò come una candela color pece
brucerò come una candela e non oserò dir preghiere
»,

e di nuovo, in questo dialogo impossibile tra poeti, la voce di Liu Xiaobo:

«Seduto tra resti di ruggine non so dire
se sia la luce dei ceppi della prigione […]
Nell’inutile vastità del mattino
tu, lontana
custodisci le notti d’amore
».

*Nicoletta Pesaro è professore associato di Lingua e letteratura cinese all’università Ca’ Foscari di Venezia