Speciale 1 maggio – Lavori in via d’estinzione

In by Simone

Le strade di Calcutta sono ancora animate da arti e mestieri in via d’estinzione, in una lotta impari contro la tecnologia. Viaggio fotografico tra macchine da scrivere, riksha a piedi, italian saloon e kan porishkar.
Davanti al South City Mall, uno dei centri commerciali più lussuosi di Calcutta, dal 13 aprile campeggia un grande cartellone pubblicitario. Un uomo di spalle alza le braccia nel mezzo del parco davanti al Victoria Memorial di Maidan, mausoleo in marmo bianco realizzato per celebrare la regina Vittoria.

Sotto: “What Kolkata does today, India does tomorrow”, lo slogan pensato dalla compagnia telefonica Airtel per il lancio del 4G, l’ultimissima tecnologia per traffico dati internet in mobilità.

Prima città in India ad usufruire di un lusso simile – che il 4G funzioni, è tutt’altro discorso, ma l’annuncio c’è stato – Calcutta è una metropoli con velleità europeistiche, sogna di tornare ai lustri del passato coloniale britannico.

La chief minister Mamata Banerjee, la scorsa estate, aveva annunciato progetti avvenieristici per trasformare la megalopoli a pochi chilometri dalla baia del Bengala in una città moderna come Londra, venendo incontro alle aspirazioni di una classe media in continua espansione.

Si tratta di una borghesia occidentalizzata e con un potere d’acquisto crescente, un mix che in altri angoli del pianeta avrebbe inciso violentemente sulla struttura sociale ed estetica della realtà urbana, soppiantando arti e mestieri antichi ed efficienti con schiere di elettrodomestici, tecnologie, mezzi di trasporto di proprietà, tutto a portata di portafogli.

Non a Calcutta. Almeno non ancora.

Nel centro di Calcutta, ad esempio, la Jatindas Park Typist Association sopravvive incredibilmente all’avanzata dei computer offrendo servizi di battitura a macchina per ogni occasione: documenti ufficiali – dei quali la bulimica burocrazia indiana si ciba quotidianamente – contratti di lavoro, tesine di laurea, lettere, preventivi.

La sede dell’associazione, dal 1981, è una striscia di terra lunga una cinquantina di metri, ricavata tra un parco e uno slum abitato da cani randagi, bambini ed, occasionalmente, capre e galline. Al posto dei muri, grate metalliche arrugginite – ottime per la stagione estiva; al posto del tetto, teli di plastica nera dai quali spuntano luci al neon e ventilatori.
Quando piove, ci confida uno dei 16 battitori professionisti, l’acqua cola dappertutto.

Mridul Chakraborty lavora come battitore a macchina da 20 anni. La macchina da scrivere se l’è comprata per 14mila rupie (200 euro), investimento per entrare nell’associazione ed assicurarsi un posto di lavoro ora a rischio estinzione. Nonostante la competitività del prezzo per pagina – 6 rupie più il costo della carta, meno di 15 centesimi in tutto – la diffusione dei computer e la concorrenza dei typist digitalizzati sta progressivamente rosicchiando la clientela dell’associazione, dove gli aficionados presenti durante l’intervista sembravano godere di un ambiente molto conviviale: ritmi di lavoro blandi, continue pause per un chai, cuscini e giornali per riempire i tempi morti, sfottò per chi batte la fiacca.

Le stampanti laser non sono affidabili. Col tempo, i documenti si sbiadiscono”, ci spiega orgoglioso. “Questa invece stampa a cotone, non si cancella niente”.

All’inizio della carriera Mridul guadagnava intorno alle 11mila rupie al mese, uno stipendio rispettabile. Ma oggi si lavora poco e si guadagna meno. Non ci ha voluto dire con precisione quanto, se non che alle 8 di sera, quando tutti staccano e lucchettano le macchine da scrivere in un armadio-cassaforte, i ricavi della giornata vengono divisi equamente tra i presenti.

Su 16 postazioni, alle tre di pomeriggio, solo la metà erano occupate. Di quella metà, solo in tre stavano battendo a macchina.

Stessa scena, ma molto più impersonale, ci si presenta dietro i cancelli del tribunale di Alipore, quartiere bene di Calcutta sede di ambasciate ed uffici istituzionali. In attesa di un’automazione delle documentazioni legali, quasi 200 battitori a macchina lavorano gomito a gomito con chioschi di avvocati, consulenti, banchetti del té, stuzzichini e lassi, fresca bevanda allo yogurt.

Tutte le scartoffie del tribunale – e parliamo di tonnellate di carta – passano da qui, dove i prezzi lievitano un po’ – 10 rupie a pagina – e per guadagnarsi uno sgabello dove appoggiare la propria macchina da scrivere bisogna avere delle conoscenze all’interno del tribunale. Anche per battere a macchina devi essere raccomandato.

Il leggendario traffico delle metropoli indiane in alcune zone di Calcutta, specie per i tragitti corti nei viottoli di quartiere, gode del contributo di un esercito di riksha a piedi, padri degli onnipresenti riksha a pedali ed antenati lontani degli autoriksha, delle specie di apecar simbolo delle strade indiane.

I riksha a piedi sono un mezzo di trasporto – ed un lavoro – che sta lentamente scomparendo. Raramente se ne vedono nel resto dell’India e nelle megalopoli di Delhi e Mumbai sono addirittura banditi.

Nei pressi di Girish Park, tra le case coloniali colorate di Calcutta nord, entriamo in uno degli ultimi laboratori dove vengono fabbricati i riksha: un antro buio, umido e freschissimo, contro la calura asfissiante del primo pomeriggio calcuttino. Tra ammassi di legna e il distinto squittìo dei ratti nell’oscurità troviamo Ranjit Singh, più di 60 anni, seduto contro il muro durante la sua pausa.

Appese sopra la sua testa, una serie di icone di Biswakarma, il dio hindu protettore dei mezzi di trasporto.

Nel 1985 Ranjit è emigrato dal Bihar, poverissimo stato confinante col Bengala Occidentale, e da allora tira il riksha per almeno 8 ore al giorno. Come lui, altri 12mila rikshawala tirano a turno i 6000 riksha a piedi attualmente in circolazione. La maggioranza dei rikshawala sono conterranei di Ranjit, bihari, e a Calcutta vivono letteralmente da stranieri: parlano hindi e in bengali, la lingua corrente in Bengala Occidentale ed in Bangladesh, conoscono poche parole.

Dove non arriva la metropolitana, l’autobus, l’auto o il riksha a motore, ci arriva Singh.
La signora bengalese deve tornare dal mercato con enormi buste della spesa? Ce la porta Singh. I bambini devono tornare da scuola? Li va a prendere Singh. Il dottore deve visitare un paziente e non ha tempo – o voglia – per cercare un parcheggio? Ce lo porta Singh, aspetta fuori sul bordo della strada, e lo riporta anche a casa.

Tariffa minima: 10 rupie per un chilometro. Poi si contratta considerando le variabili traffico, peso, caldo, distanza. In media Singh guadagna 300 rupie al giorno, che in un mese fanno 9000 rupie, più o meno 130 euro.

Coi risparmi, in 25 anni, ha sistemato tutta la famiglia rimasta in Bihar: ha comprato un terreno per i figli ed è riuscito a far sposare sua figlia pagando una dote da 300mila rupie. 4300 euro, e la figlia è sistemata.

Ora si dice stufo di questa vita, stufo di sentire le lamentele dei suoi figli che “non fanno nulla”. Si sta facendo crescere una bella barba bianca, veste di arancione, e tra pochi mesi riconsegnerà il suo riksha – che affitta a 22 rupie al giorno, 32 centesimi di euro – e diventerà un sadhu (santone) devoto a Shiva.

Quello che dovevo fare per la mia famiglia l’ho fatto. Ora voglio vivere la mia vita, toccherà ai miei figli prendersi cura della loro madre”.

Un altro bihari che parla anche un po’ d’inglese – “Ho fatto la terza media!” – ha un italian saloon, il nome che in bengala usano per i barbieri di strada. Nonostante il tributo all’Italia, italian non ha alcuna accezione geografica: è l’evoluzione di it, che in bengali significa mattone.

Al saloon dei barbieri di strada di Calcutta, per radersi o tagliare i capelli, si viene fatti accomodare su una pila di mattoni. Il resto è come dal barbiere tradizionale, salvo ritrovarsi accovacciati sul bordo delle strade più brulicanti e sporche del subcontinente.

Bijan Thakur da quasi vent’anni si posiziona davanti all’entrata della casa di Rabindranath Tagore – premio Nobel per la letteratura e venerato come un dio in tutta la regione del Bengala – e taglia barbe e capelli. Quando il sole batte troppo forte, si ferma, aspetta che l’ombra dei palazzi dall’altra parte della strada si allunghi sul suo saloon, e riapre.
Rasatura barba: 6 rupie – 8 centesimi di euro. Taglio capelli: 15 rupie.

Dal barbiere “vero” a pochi metri dal suo angolo, l’odiata concorrenza dei rasoi elettrici, i prezzi raddoppiano. Ma Bijan gode di una clientela affezionata, grazie forse alla location tattica: mentre i capelli cadono sotto i colpi delle forbici del signor Thakur, si può ordinare un chai dal chiosco in legno posizionato pochi centimetri più in là. Per il giornale, basta attraversare la strada.

A fine giornata Bijan ricava 200 rupie (neanche 3 euro), soldi puliti che non deve dividere con nessuno. Bijan Thakur, a suo modo, è un libero professionista.

Se farsi radere la barba a pochi metri dai canali di scolo di uno dei centri più sovrappopolati del pianeta vi pare un’esperienza raccapricciante – ma precisiamo, con 10 rupie mettono anche il dopobarba! – apprenderete con ribrezzo l’esistenza di una figura professionale in via d’estinzione ma con un discreto mercato. E’ il kan porishkar, il pulitore di orecchie.

400

Sulla falsa riga dell’italian salon, il kan porishkar posiziona la sua cassetta di legno in bella vista, con batuffoli di cotone e boccette profumate, pronto all’occorrenza a stappare il condotto uditivo più congestionato, con mano ferma da chirurgo.

Pulizia completa “25 rupees only”, intorno ai 40 centesimi, compresa ramanzina sulla scarsa cura dell’igiene personale.
Guarda cosa ti ho trovato dentro”, mostra il kan porishkar al cliente. “Devi tornare più spesso!”.

[Foto di Carola Lorea e Matteo Miavaldi]