“We will come back”. Lo avevano promesso i manifestanti di Hong Kong durante le ultime battute della rivoluzione pro-democrazia che nel 2014 paralizzò l’ex colonia britannica per 79 giorni con l’obiettivo (mancato) di ottenere il suffragio universale promesso da Pechino alla vigilia dell’handover. A distanza di cinque anni, l’erosione delle libertà contenute nella formula “un paese due sistemi” (politica estera centralizzata in cambio di semiautonomia economica, giudiziaria e amministrativa) ha nuovamente spinto la popolazione locale in strada. Nel giro di qualche settimana le dimostrazioni – nate in risposta a una legge sull’estradizione – hanno amplificato un malcontento generalizzato e trasversale. Vecchie piaghe sociali mai rimarginate tornano a dolere, mentre lo sdegno dell’opinione pubblica si riversa, a fasi alterne, tanto contro l’inettitudine delle autorità locali quanto contro l’assertività del governo centrale. Nemmeno la sospensione a tempo indefinito dell’emendamento (annunciata il 15 giugno) è bastata a placare l’animosità dei manifestanti, vero tratto distintivo del nuovo movimento di disobbedienza civile. Hong Kong non si batte solo contro una legge. Vuole la democrazia.
Avviate dal Civil Human Rights Front, coalizione nata nel 2002 in contestazione a un controverso provvedimento sulla sicurezza nazionale, le proteste anti-estradizione hanno determinato una netta evoluzione rispetto al movimento degli Ombrelli per la loro natura orizzontale, decentralizzata e priva di una leadership. Il passaggio dagli Ombrelli al movimento anti-estradizione testimonia la progressiva frammentazione delle organizzazioni studentesche e la crescente marginalizzazione dei partiti politici. Complice la perdita di fiducia nei confronti dei pro-democratici – eredi dei movimenti giovanili anni ’70 – che dal massacro di piazza Tian’anmen hanno tentato, senza troppo successo, di difendere l’autonomia dell’ex colonia inglese contro l’ingerenza cinese.
Ma, come spiega sul magazine Jacobin Au Loong Yu, attivista e fondatore della no profit Globalization Monitor, proprio la mancanza di una figura di riferimento in grado di moderare tra le varie anime del movimento ha contribuito all’escalation di violenza tra agenti di polizia e dimostranti, che contraddistingue ormai abitualmente gli strascichi serali delle proteste. Secondo Au, il processo di radicalizzazione trae origine dal fallimento delle marce pacifiche del 2014 e dal conseguente smembramento della Hong Kong Federation of Students, forza trainante degli Ombrelli. Un vuoto che è stato riempito da nuovi gruppi politici localisti, favorevoli all’autodeterminazione o persino all’indipendenza, capaci di rispondere meglio alla crisi identitaria delle nuove generazioni, di cui solo il 3% si considera cinese.
A ciò si aggiungono criticità tutte interne. Assunto l’incarico con l’impegno di ascoltare le esigenze dei giovani, dal 2017 a oggi Carrie Lam non è stata in grado di correggere le distorsioni sociali che contraddistinguono la regione amministrativa speciale. Scarsa mobilità giovanile ed emergenza abitativa in primis. Secondo le statistiche ufficiali, un hongkoghese su cinque vive sotto la soglia di povertà, con il coefficiente di Gini (misura della diseguaglianza da 0 a 1) che si attesa allo 0,539, il valore più alto in 45 anni e più che negli Stati Uniti o a Singapore.
Leggi l’articolo integrale su Left
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.