Tutto quello che c’è da sapere sul conflitto che 50 anni fa vide fronteggiarsi per la prima volta Cina ed India indipendenti. Vittoria indiscutibile per la Cina, amara lezione militare e politica per l’India. Ecco come, in soli 30 giorni, si fissarono i ruoli del futuro del continente asiatico.
E’ passato mezzo secolo da quando India e Cina si sono scontrate nella così detta “guerra dei trenta giorni”. Il conflitto che sfociò nell’attacco cinese del 20 ottobre 1962 lasciò all’India una profonda amarezza e una perdita territoriale pari alle dimensioni della Svizzera. La Cina guadagnò in autostima e in chilometri quadrati, seppure attirando sfiducia e antipatia da parte della comunità internazionale.
Nehru vs. Mao: lo sfogo di reciproci sospetti e risentimenti
A cinquant’anni dal conflitto, risuonano le parole dei rispettivi leader dei due giganti asiatici, a ribadire un’epoca di incomprensioni e fraintendimenti reciproci, che ancora esita a trovare un termine.
A seguito dell’invasione cinese del Tibet, il primo ministro indiano Pandit Jawaharlal Nehru rilasciò una dichiarazione alla stampa internazionale che aveva il sapore d’una profezia: "Oggi i cinesi si sono presi il Tibet, ovvero il palmo della mano. Domani si prenderanno anche le singole dita […] Ed anche il pollice ed il mignolo se li prenderanno, che sono costituiti dal Ladakh indo-pakistano e dai territori del North-East Frontier Agency".
Di fatto, il primo venne assicurato sotto il controllo cinese con la guerra del 1962 (l’Aksai Chin indiano) e con l’acquisizione di parte del Kashmir pakistano nel 1963; il secondo, ovvero l’attuale Arunachal Pradesh, è stato invaso durante il conflitto sino-indiano, e resta tuttora rivendicato da entrambe le parti.
Mentre Nehru, nel 1960, caldeggiava il ritiro degli avamposti cinesi dal confine e intraprendeva la cosiddetta Forward policy, politica di azione militare “in avanti” volta a frenare l’occupazione cinese dei territori contesi e bloccare i rifornimenti alle truppe avversarie, così si espresse il Grande Timoniere:
“Se l’India si spinge nella nostra metà della scacchiera, dovremo far avanzare degli alfieri dalla nostra parte del fiume. Se gli avversari non lo attraversano, ben venga. Ma se lo fanno, saremo costretti a mangiare le loro pedine”. Abbandonando la metafora degli scacchi cinesi, Mao proseguì: “Piuttosto che essere costantemente accusati di aggressione, è giunto il momento di mostrare al mondo cosa succede davvero quando la Cina muove i suoi muscoli”.
Una guerra mai dichiarata
Non fu tecnicamente una guerra quella che coinvolse India e Cina ai margini delle rispettive estensioni, ma un gioco di potere e una prova del nove per schierare alleati internazionali. La guerra non venne mai apertamente dichiarata, né vennero utilizzati mezzi aerei, così come mai si firmò un trattato di pace a seguito del cessate-il-fuoco del 21 novembre 1962.
Eppure nella storia dell’India il conflitto divenne tristemente famoso con la nomea di yuddha (guerra), per via delle numerose perdite (1383 i deceduti da parte indiana, 722 per quella cinese) e per le durissime condizioni in cui gli scontri ebbero luogo: gli aspri territori contesi della fascia himalayana sono impervi e disabitati, ad altitudini e temperature proibitive – la maggior parte fra i 4000 e i 7000 metri – percorsi saltuariamente da nomadi kirgizi per la transumanza delle mandrie di yak.
Problemi di frontiera
Con l’indipendenza dal regime britannico, l’India ereditò dei confini vaghi ed indefiniti. Dopo l’annessione cinese del Tibet nel 1959, e la conseguente scomparsa di uno stato-cuscinetto fra i due colossi, India e Cina si ritrovarono a dover spartire delle linee di confine per la sterminata lunghezza di circa 3.400 chilometri.
Le terre di frontiera, principalmente abitate da popolazioni tribali ed etnie sino-tibetane, si videro contese fra un’India indipendente che rivendicava il lascito delle approssimative mappature dei tempi coloniali, e una Cina che considera le zone d’influenza tibetana un proprio diritto.
Le dispute si concentrarono su due aree di importanza strategica separate l’una dall’altra da 1000 km di catena himalayana: ad ovest, il “deserto rosso” dell‘Aksai Chin, di fondamentale importanza per accedere al Tibet e garantirne il controllo. Ad est, il territorio della North-East Frontier Agency (oggi Arunachal Pradesh), corridoio strategico per accedere al Golfo del Bengala, il cui cuore culturale è rappresentato da Tawang, che ospita uno dei più importanti monasteri del buddhismo mahayana in tutta l’Asia.
Sul versante ovest: a chi appartiene l’Aksai Chin?
Conquistata nel 1842 dalla Confederazione dei Sikh, l’area nord-occidentale contigua al tetto del mondo tibetano passò nel 1846 sotto diretto controllo dell’Impero coloniale britannico, che ne concordò i limiti e le dimensioni con l’approvazione di funzionari cinesi.
I confini furono stabiliti bilateralmente in corrispondenza del passo del Karakorum, da una parte, e del lago Pangong dall’altra: nel mezzo, il brullo e spopolato altipiano dell’Aksai Chin, ancora avulso da mire di convenienza, non venne preso in considerazione.
Dopo circa un ventennio, il funzionario dell’amministrazione britannica W. H. Johnson decise di includere l’Aksai Chin ai possedimenti del Maharaja del Kashmir e presentò una nuova linea di confine nota come linea Johnson.
Nonostante questi fosse stato severamente redarguito per l’inaccuratezza dell’operazione e costretto alle dimissioni, la linea Johnson venne adottata dall’India indipendente di Nehru per disegnare i propri confini internazionali.
La strada che fece traboccare il vaso
Il 1 luglio 1954 Nehru ufficializza la validità della controversa frontiera, ribadendo la sovranità indiana sull’Aksai Chin “da secoli parte del Ladakh e pertanto non-negoziabile”. Di fronte alle affermazioni di Nuova Delhi, la risposta cinese fu priva di condanne e opposizioni.
Il premier cinese Zhou En Lai dichiarò nel 1956 che la Cina non aveva alcuna situazione territoriale da dibattere con l’India e che non c’era motivo di rivendicare alcun possedimento. Tuttavia le mappe cinesi del tempo mostravano 120mila chilometri quadrati di territorio indiano sotto la bandiera della Repubblica popolare.
Nella segretezza di una tacita concordia, gli operai cinesi cominciarono a costruire un’autostrada nel cuore dell’Aksai Chin, arteria essenziale per collegare il Tibet alla regione del Xingjiang, sforando di oltre 180 chilometri a sud della (sinora) indiscussa linea Johnson.
Informata dallo spionaggio aeronautico americano, prima, e dalle nuove mappature cinesi del ’58 poi, l’India venne a conoscenza della strada e degli avamposti cinesi che tagliavano l’Aksai Chin.
L’episodio fu cruciale per l’aumentare delle tensioni e per stabilire il fallimento della romantica politica nehruviana Hindi-Chini, bhai-bhai (Indiani e Cinesi sono fratelli) con cui il primo leader dell’India indipendente aveva sperato in un asse asiatico di solida amicizia tra i due Paesi non allineati, incoraggiata dai “cinque principi di pacifica coesistenza” e dalla conferenza di Bandung (1955).
L’arena est e il caso NEFA
Le note del generale inglese Staff indicavano, nel 1912, una frontiera nordorientale dell’India coloniale posta al di sotto del centro nevralgico di Tawang; eppure, l’anno seguente, il confine che definiva Tibet interno e Tibet esterno, la linea MacMahon, stabiliva altrimenti.
Il trattato di Simla fra inglesi e tibetani – i cinesi si alzarono sdegnati dal tavolo di discussione prima che l’accordo venisse firmato – garantì il possesso dell’intera regione di Tawang al governo britannico, che tuttavia prometteva vasta indipendenza tibetana nell’amministrazione locale.
Cancellata e riproposta più volte, la controversa linea McMahon rappresenta la frontiera utilizzata nelle mappe dell’India britannica a partire dagli anni ’30. Popolato dai tibetani e difeso dagli inglesi, il problematico versante della North-East Frontier Agency escludeva il riconoscimento di Pechino, accordando facoltà decisionali al “vassallo” tibetano.
Al di là delle frontiere: le cause della guerra
Ad accrescere le tensioni e la sfiducia reciproca contribuirono molti fattori, ben distanti dai pascoli himalayani e dai ghiacciai perenni. L’ospitalità concessa dall’India di Nehru al Dalai Lama e a tutto il governo tibetano in esilio provocò non pochi languori nei rapporti diplomatici con i “fratelli” cinesi.
Quando, nel 1960, l’avanzata dettata dalla Forward policy nehruviana si spinse sempre più a nord per fare pressione sugli avamposti cinesi, Zhou En Lai interpretò il gesto come una chiara conferma del sospetto che l’India avesse intenzioni espansionistiche sul Tibet e che, al pari dell’imperialismo degli ex colonizzatori, volesse delegittimare l’appartenenza cinese del Tibet e accaparrarsene il controllo.
L’anno successivo, Goa fu strappata ai portoghesi e annessa alla federazione indiana, episodio che non contribuì di certo a placare i sospetti di espansionismo aggressivo.
La fermezza di Nehru, che si ostinò a non cedere al compromesso dell’Aksai Chin, e l’ingenua supposizione che mai si sarebbe giunti ad uno scontro diretto, venne ripagata con il terribile attacco del 20 ottobre 1962, a cui l’esercito indiano, completamente impreparato e colto alla sprovvista, reagì con disperata disorganizzazione logistica.
La Cina volle impartire una chiara lezione di superiorità: si assicurò il controllo del crocevia centrasiatico dell’Aksai Chin, invase l’Arunachal Pradesh ridiscendendo le pendici himalayane fino ad arrivare nella pianura dell’Assam, si spolverò la giacca e arretrò nuovamente, dopo il cessate-il-fuoco unilaterale del 21 novembre.
Dopo la guerra-lampo: risvolti internazionali e conseguenze interne
Contemporaneamente alle vicissitudini dei neo-confinanti paesi asiatici, la scena internazionale era concentrata sugli avvenimenti della Baia dei Porci cubana. Distratti dalla guerra fredda, né gli Stati Uniti, né l’Unione Sovietica, con cui l’India godeva di affinità privilegiate, prestarono soccorso a rimpolpare l’inferiorità militare indiana.
Tuttavia l’India sconfitta trasse alcuni benefici dalle conseguenze del conflitto di frontiera, tanto da giustificare una rilettura della tragedia a favore – sulla lunga distanza – del subcontinente.
L’amara disfatta provocò una corsa alle armi che fece raddoppiare la portata della difesa indiana nel giro di soli due anni: una militarizzazione che valse all’India il futuro successo nelle guerre contro il Pakistan.
L’identificazione di un nemico comune ed estrinseco garantì, inoltre, una forte rivitalizzazione del sentimento patriottico, pilastro portante dell’unità indiana, e consentì lo svilupparsi di una coesione sociale ed emotiva fra le componenti dissociate del tessuto post-coloniale.
Tale è il sentimento rievocato nel successo cinematografico Haqiqaat, il film che, a soli due anni di distanza dalla guerra, glorifica il coraggio di truppe romanzate, che respingono l’invasore al freddo e al gelo con il famoso sottofondo melodico di Mohammed Rafi: “hum tumhare hawale watan saathiyo…”, ora la patria è nelle vostre mani, prendetevi cura di lei.
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