Dopo mezzo secolo dall’inizio della guerra lampo, per Cina e India è tempo di bilanci. Pechino mantiene il basso profilo tipico delle questioni sensibili legate all’indipendenza tibetana, mentre Delhi prova ad uscire dal tradizionale vittimismo e mette sul banco degli imputati il premier Nehru.
Sono passati 50 anni dall’inizio del conflitto tra Cina e India, all’epoca due giovani nazioni dalle dimensioni continentali, oggi chiacchierate potenze mondiali sulle quali calano diverse ombre politiche e strutturali, ora che é finalmente chiaro a tutti che il nostro futuro sarà in gran parte deciso dal loro.
I rapporti di forza che hanno determinato gli odierni assetti asiatici, con Delhi e Pechino principali centri d’influenza, sono nati tra il 20 ottobre ed il 21 novembre 1962, con una guerra lampo combattuta per onore e reputazione internazionale.
Il pretesto delle dispute territoriali sull’Himalaya, ancora oggi attraversato da confini tratteggiati entro i quali si scontrano le diplomazie cinese e indiana da oltre 30 anni, portò ad uno scontro che riuscì a definire i rispettivi ruoli nel continente e nel mondo, a dispetto dei tavoli delle trattative.
La Cina, appena uscita dal catastrofico Grande Balzo in Avanti, diede una sonora lezione politica e militare all’India di Nehru, dimostrando in un solo mese non solo l’enorme divario tra i due eserciti nazionali, ma soprattutto l’audacia ed aggressività della sua politica estera, permettendosi il lusso di dichiarare un cessate il fuoco unilaterale per non infierire oltre sulle truppe indiane mandate al macello ad alta quota dal governo di Delhi.
La stampa cinese dà rilievo minimo all’evento, mantenendo il basso profilo tipico dei temi reputati sensibili da Zhongnanhai. E la guerra sino-indiana è uno di questi, viste le implicazioni con la questione tibetana. La rivendicazione indiana delle aree al confine nordest e nordovest con la Cina, infatti, si poggia sulla diatriba dell’indipendenza del Tibet pre-1959. Condizione che Pechino ha sempre negato.
Il Global Times si attiene alla vulgata ufficiale: l’esercito cinese è stato costretto ad intervenire a causa delle provocazioni indiane; i soldati cinesi lottarono coraggiosamente sbaragliando le truppe d’élite avversarie; i feriti indiani furono curati e rimandati in patria; il vero avversario non era l’India, ma gli imperialismi di Stati Uniti e Russia.
In fondo, una lunga sequela di lodi alla cultura indiana, i punti di contatto filosofici e religiosi, buddismo e imperi millenari, raggiungendo l’apoteosi nell’appello a tornare ad essere “vecchi amici” per un comune futuro prospero. E’ la cara vecchia strategia del win-win.
Tutt’altro clima si respira invece in India, dove la ferita è ancora aperta e dolorante ed il Paese prova ad uscire dal tradizionale vittimismo, facendo i conti con verità storiche scomode.
Sul banco degli imputati Jawaharlal Nehru, padre della patria e primo ministro, colpevole di un’imbarazzante serie di errori di valutazione.
In primis, aver creduto a Zhou Enlai, premier della Repubblica popolare, che sosteneva di voler allineare la Cina al sogno nehruviano di un duopolio sino-indiano nel continente. Lo slogan era Hindi-chini, bhai bhai: India e Cina, due fratelli.
Poi aver ceduto alle pressioni americane, acconsentendo ad ospitare in India le basi di addestramento Usa per i ribelli tibetani, dietro la promessa di un supporto militare mai arrivato, e aver fatto affidamento sui russi che – molto timidamente – si erano detti vicini alla posizione indiana.
Infine, aver disposto l’avanzamento delle truppe indiane sempre più a nord, l’ingloriosa Forward policy, una mossa interpretata da Pechino come la prova delle mire espansionistiche di Delhi, ed aver rifiutato per ben due volte – la prima a soli quattro giorni dall’inizio dello scontro armato – l’offerta cinese di un armistizio in cambio dell’Aksai Chin, territorio conteso a nord-ovest.
L’orgoglio di Nehru, condiviso da gran parte della popolazione, condannò a morte 1400 soldati indiani mal equipaggiati: una disfatta inimmaginabile, ma che qualcuno aveva avuto l’acume di prevedere.
BG Vergese, inviato di guerra per il Times of India in quegli anni, ha raccontato su Tehelka:
“Solo un opinionista, NJ Nanporia, redattore del Times of India, ci vide giusto. In un articolo molto ben ragionato, sostenne che la Cina preferisse i negoziati e un accordo pacifico, non l’invasione, e che l’India dovesse accettare il dialogo. In caso contrario, la Cina avrebbe impartito una lezione all’India e si sarebbe ritirata. I critici attaccarono Nanporia. […] Una settimana o dieci giorni dopo, rispondendo a chi lo criticava, [Nanporia] ristampò lo stesso identico articolo, non un punto o una virgola in meno. Gli eventi gli diedero ragione”.
Gli indiani per 50 anni hanno creduto – e continuano a credere – che la Cina abbia invaso l’India da un giorno all’altro, senza una vera motivazione, omettendo le responsabilità oggettive di una gestione del conflitto decisamente scriteriata da parte di Nehru e dei suoi consiglieri, tra cui il ministro della Difesa Menon, in rotta con gli alti ufficiali dell’esercito indiano.
Il resoconto dettagliato delle cause della debacle é contenuto nel rapporto Henderson Brooks, redatto dall’omonimo funzionario dietro richiesta del capo dell’esercito Generale JN Chaudhuri.
Il documento, ancora oggi protetto dal segreto di Stato, si dice sia stato visionato solo da una manciata di ufficiali e dal giornalista britannico Neville Maxwell, che nel 1971 pubblicò il saggio India’s China War, opera che rivede drasticamente il ruolo dell’India rispetto alla verità di Delhi sul conflitto, addossando diverse colpe alla dirigenza dell’epoca.
Come 50 anni fa, oggi Cina ed India sono destinate ad un costante confronto, accomunate dalla responsabilità diretta di quasi tre miliardi di persone e dal ruolo di apripista dei Paesi non allineati del nuovo millennio, i Paesi in via di sviluppo.
Se sarà un futuro Hindi-chini, bhai-bhai è tutto da vedere. Certo è che l’imperativo categorico indiano sarà quello di eliminare il gap che la divide dalla Cina in svariati campi, dall’economia alle infrastrutture, dalla potenza bellica all’influenza internazionale.
Se sarà un futuro di conflitto o di collaborazione, l’India dovrà essere in grado di fronteggiare la Cina senza complessi di inferiorità, pronta a tener testa all’egemonia di Pechino.
Ashok Malik, sempre per Tehelka, ha scritto:
“Una volta chiesi ad un diplomatico indiano esperto di Cina – un tipo cauto, non un guerrafondaio – se la Cina fosse seria nel reclamare Tawang (città nello stato dell’Arunachal Pradesh, considerato da Pechino “Tibet del Sud”, nda). ‘Certo’ mi disse. Cosa potrebbe fargli cambiare idea? Mi guardò dritto negli occhi, parlando lentamente: ‘Realizzare che il prezzo da pagare per Tawang sarebbe la perdita di Shanghai’. Ricevetti il messaggio. E, un giorno, dovrà farlo anche la Cina.”
Altri articoli del nostro Speciale guerra sino-indiana:
Un conflitto storico
Le dispute aperte
[Foto credit: outlookindia.com]