Abbandonate, annegate, rifiutate, strozzate nel proprio cordone ombelicale. Avvolte in scialli di broccato o nascoste ai bordi della strada con un sassolino, una foglia, un nome nella mano. Cresciute in orfanotrofi o in famiglie che nulla sanno della loro origine. Sono queste Le figlie perdute della Cina che ci racconta Xue Xinran. Fanno parte di quei cento milioni di bambine scomparse di cui chiedeva conto l’Economist con una copertina che gridava il nome dello scandalo: gendercide, omicidio di genere. Due minuscole scarpette rosa su un gigantesco sfondo nero. Una consuetudine rurale che fatica a scomparire, anche nella moderna e positivista Cina.
Il figlio maschio sarà un aiuto nei campi, permetterà di portare avanti il nome e la ricchezza del clan, accudirà i genitori quando invecchieranno. Sarà garanzia per il futuro e consolazione per gli antenati. E, se per legge è concesso un solo tentativo, la nascita di una bambina è temuta come una sciagura che si abbatterà sulla famiglia, una vergogna che ne infanga l’onore e che risale l’albero genealogico fino a sporcare il ricordo degli avi.
È indescrivibile il dolore che ogni madre deve affrontare per essersi sentita costretta a rinunciare a una figlia. Ed è un dolore taciuto, nascosto, represso. Bisogna continuare a vivere per provare a dare alla luce un maschio, e bisogna continuare a mentire perché si è disobbedito al Governo.
La stessa legge sulla pianificazione familiare, infatti, proibisce l’allontanamento delle donne che partoriscono figli di sesso femminile e afferma che è illegale abbandonare le neonate. Ma la realtà è sempre più complicata e la brava sposa di campagna sa che deve generare un maschio. È convinta che ogni donna che partorisce una bambina ha un’unica strada da percorrere: «sistemarla», ovvero, sbarazzarsene. Xue Xinran riesce a far parlare queste donne perché cerca disperatamente una giustificazione all’amore che sua madre le ha negato durante l’infanzia.
È cresciuta negli anni Sessanta, affrontando da sola la tremenda carestia che seguì il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e i campi di rieducazione. Erano tempi difficili quelli, preoccuparsi della propria famiglia “era un comportamento capitalista e come tale poteva essere punito”. La piccola Xinran si è sentita abbandonata e crede che ogni madre abbia il dovere di spiegare alla propria figlia i motivi del suo gesto, di convincerla dell’inevitabilità del suo amore. Anche se non la rivedrà mai più.
SPECIALE "GENDERCIDE":
[Pubblicato da Saturno, inserto culturale de Il Fatto Quotidiano]