Tokyo, due anni dopo l’11 marzo 2011. L’incontro con un gruppo di volontari indipendenti impegnato a raccogliere dati sulle radiazioni di Fukushima e l’idea di un viaggio dalla capitale verso i luoghi del disastro. Fino a nord, alla centrale di Rokkasho. Un reportage esclusivo dal Tohoku, frutto di 3 viaggi negli ultimi tre anni.
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Tokyo, agosto 2013
Prima di partire per il nordest del paese sono tornata a visitare un gruppo di esperti e appassionati che hanno dato vita a Tokyo a un progetto per raccogliere e condividere informazioni e strumenti per la misurazione delle radiazioni. Il progetto si chiama Safecast, e oggi ha l’ufficio nel quartiere di Shibuya, a Tokyo.
Fu grazie a questo gruppo di persone, conosciute da un articolo di Al Jazeera, che nel 2011 mi procurai il mio primo contatore Geiger per andare a Iwaki, Fukushima. Seguii alcuni loro incontri in cui spiegavano a inesperti, come me, la differenza tra sievert o becquerel, tra le radiazioni nei cibi e quelle nell’aria. Insomma, mi iniziarono al complesso mondo della radioattività. In cambio poi diedi i risultati della mie misurazioni fatte a Fukushima con il loro contatori e GPS.
Nel loro nuovo spazio di lavoro nella capitale, chiacchiero assieme ad alcuni volontari sulla strada fatta fino ad allora. Safecast nasce subito dopo l’incidente alla centrale numero uno di Fukushima.
“Mi piace descrivere i nostri primi passi come un fiume che inizia a formarsi. Molte persone volevano occuparsi di quanto successo dopo il terremoto e lo tsunami (dell’11 marzo 2011), facendo ciascuno qualcosa. Queste persone hanno iniziato a formare gruppi e questi gruppi si sono messi assieme dando vita a Safecast”, ricorda Joe Moross, un ingegnere statunitense che collabora con Safecast, ed è una delle figure più attive nel gruppo.
Con l’intento di colmare le lacune lasciate dalle risposte ufficiali dopo l’incidente alla centrale nucleare, questi volontari hanno iniziato a darsi da fare per raccogliere dati. Hanno costruito unità per la misurazione delle radiazioni e si servono di volontari in giro per il paese per rilevare i livelli delle emissioni. Oggi organizzano corsi in Giappone e all’estero, anche online, per fare misurazioni e costruire contatori Geiger da sé montando i pezzi di un kit che loro stessi preparano.
Se penso alla prima volta che li ho incontrati, quando muovevano i loro primi passi nel piccolo ufficio di Tokyo Hacker Space con qualche soldo raccolto con il crowdfunding, non posso fare a meno di osservare dove sono arrivati. Oggi vanno avanti anche grazie ai finanziamenti ricevuti dalla John S. and James L. Knight Foundation e da GlobalGiving, collaborano con università come la Keio di Tokyo e con enti locali giapponesi.
Nella teca all’ingresso del loro nuovo ufficio a Shibuya sono esposte le prime generazioni di Geiger create dal gruppo, accanto qualche depliant che spiega come sono nati e come sono fatti questi strumenti.
Il mix di Fukushima
Mentre rivedo gli strumenti per la partenza, Moross mi ricorda di essere cauta nella lettura dei dati e conclude con la teoria sull’insieme di isotopi .
“Molti sensori per le radiazioni sono calibrati per un isotopo unico e particolare. Il carbonio 60 e il cesio 137 sono i più comunemente usati. Se si utilizzano questi strumenti calibrati per misurare le dosi che escono da altri isotopi, o da un insieme di isotopi, le misurazioni possono essere molto diverse. La ricaduta che ha coperto il Giappone alla fine di marzo del 2011 non proveniva da un’unica singola fonte di radiazioni da laboratorio.
Al momento non sappiamo che cosa fosse e di quali proporzioni, sappiamo solo che era un complesso mix di molti isotopi, ciascuno con proprie caratteristiche. Questa diversità di fonti è quella che chiamo “Fukushima mix”, che oggi è dominato dal cesio 137”.
Verso Fukushima
Il percorso con il treno e la macchina per raggiungere la prefettura di Fukushima fa capire quanto il Giappone sia ancora per la maggior parte rurale.
Tra le montagne della prefettura di Tochigi incontro una famiglia di allevatori.
Hanno deciso di abbandonare la frenetica vita di Tokyo, dove lavoravano nel settore dell’architettura, per fondare con i loro figli una fattoria. Poco lontano dalla loro casa, lungo un fiumiciattolo, sorge un ristorante che offre tutto il necessario per la pesca. I numerosi avventori hanno la possibilità di farsi cucinare il proprio pescato.
La prefettura di Fukushima dista ormai pochi chilometri. Risalendo il fiume, dalle montagne si cominciano a intravvedere i monti che bordano i confini. Lungo lati della strada famiglie una coppia di scimmie con un cucciolo resta ferma a osservare l’auto che passa.
Lasciata la prefettura di Tochigi alle spalle, verso il tardo pomeriggio tra una distesa e piccoli villaggi, si comincia a intravvedere Aizu, la più occidentale delle tre regioni della prefettura di Fukushima.
Nel villaggio di Aizu Misato una scuola abbandonata da alcuni anni riconvertita in centro dati, la Smart Technology Partners (STP).
RACCOGLIERE DATI A FUKUSHIMA
Aizumisato, 2013
Alle 7 del mattino, dopo una notte trascorsa in una stanza della scuola a cacciare ragni e insetti dal futon, vengo svegliata dall’altoparlante della municipalità di Aizumisato: “Attenzione, attacco orsi!”. Non era il pericolo che mi aspettavo di trovare a Fukushima.
Uscita dalla mia stanza con il contatore geiger per fare qualche misurazioni nei dintorni, alcune persone si affacciano alle finestre della scuola per fermarmi. “Dove vai? Non hai sentito l’annuncio? Se ti allontani porta con te uno di questi fucili per spaventare gli orsi. Hanno attaccato delle persone anche la scorsa settimana”.
Penso a una reazione esagerata, ma vedere l’arma accanto all’ingresso della scuola, non ha lasciato spazio a dubbi. Decido di non allontanarmi troppo.
Quando rientro nella scuola trovo alcune persone già sedute alle scrivanie dei propri computer in una una delle due aule convertite a uffici. Alle pareti, accanto agli hard disk aperti, sono ancora appesi i dipinti dei bambini. Sono tutti vestiti in modo semplice, senza le formalità della città.
La scelta degli edifici non è casuale. Mi spiegano che l’incidente alla centrale di Fukushima ha accelerato il processo di spopolamento delle aree rurali della provincia e il numero delle scuole abbandonate è aumentato notevolmente. In tutta la prefettura di Fukushima ce ne sono circa 250, oltre 5mila in tutto il Giappone.
“Il nostro obiettivo è quello di recuperare questi edifici ed evitare che vengano abbattuti”, spiega Carl Sundberg, fondatore e amministratore delegato di STP.
Nell’area, già nota per l’università di Aizu specializzata in Computer Science, l’obiettivo di STP è di sviluppare una rete di computer distribuita nelle aree rurali del Giappone.
“Molte aziende continuano a esternalizzare il lavoro in Cina e altri paesi asiatici, noi pensiamo invece di concentrarci sulle risorse delle aree rurali giapponesi. Al momento oltre il 70 percento dei centri di dati giapponesi sono collocati solo nella regione del Kanto, quella di Tokyo, e un eventuale terremoto metterebbe in ginocchio la capacità di elaborazione dati dell’intero paese per settimane, se non mesi”.
Le persone che lavorano nel centro arrivano da situazioni in cui avevano perso il lavoro o dalle città attorno a Fukushima evacuate dopo l’incidente alla centrale nucleare dell’11 marzo 2011.
Coltivatori di campi che aspettano di essere bonificati o operai di aziende che hanno chiuso le proprie sedi nella prefettura, ora si stanno adattando per diventare informatici e impiegati. Molti di loro non vogliono e nemmeno pensano di lasciare la prefettura di Fukushima. Qui, dicono, il livello di radiazioni è sotto controllo, nonostante capiti ancora di trovare “hot spot”.
Yoshitsu Saze è uno dei 30 impiegati che lavorano nella scuola. “Prima coltivavo asparagi a Tajima, ma dopo l’incidente a Fukushima, la vendita del prodotto è crollata. Adesso qui sto imparando sul campo a usare il computer e lavoro come tecnico”.
Hiroko Sasaki è una 60enne con un passato da impiegata e una visione più pessimista della situazione. “Per me il futuro è nero, non lascerei i miei figli vivere qui, Sappiamo che che dobbiamo migliorare la situazione dobbiamo fare del nostro meglio. Ma la situazione è difficile, non c’è lavoro. Riceviamo sussidi dalla prefettura, ma ci basteranno per appena 2, 3 anni. E poi? Le aziende basate qui stanno chiudendo”.
Sasaki sta studiando per diventare consulente per chi ha problemi di stress. “Ci sono molti uomini che hanno perso il lavoro e riescono a vivere degli aiuti di stato. Restano a casa senza far nulla e le loro mogli si lamentano. Spesso arrivano al divorzio. Il numero delle rotture è aumentato drasticamente negli ultimi tempi”.
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Anche il sindaco di Aizu è convinto che il settore dei servizi informatici possa essere d’aiuto per l’economia dell’area. “Il contributo dei servizi di STP è importante innanzitutto per diffondere tra la popolazione informazioni sulla radioattività. Gli strumenti che abbiamo spesso non bastano”, spiega il sindaco di Aizu Misato, Hidetoshi Watanabe, mostrando uno dei trenta contatori per la misurazione dei raggi gamma ricevuti dalla prefettura di Fukushima.
“Ma soprattutto questo potrebbe diventare un modello di sviluppo per riqualificare l’intera area e magari attrarre persone da fuori di Fukushima”.
LE ACTION MAMA DI IWAKI
Iwaki, 2011
Quando la spia inizia a lampeggiare Kaori Suzuki gira il contatore verso le amiche e annuncia l’esito dell’ultima misurazione: 0,171 microsievert l’ora.
Sedute in un tavolino davanti a una tazza di tè un gruppo di donne prende nota del dato e lo confronta con quelli dei giorni precedenti e di altre località. Poi si danno appuntamento tra qualche giorno. A sei mesi dal terremoto e dallo tsunami dell’11 marzo, questi ritrovi si ripetono con sempre più frequenza e con un solo obiettivo, quello di tenere sotto controllo il livello di radioattività della città in cui vivono, Iwaki, vicina al reattore di Fukushima Dai-ichi.
L’idea è nata da alcune madri che, non fidandosi dei dati diffusi dal governo e dalla compagnia per l’energia Tepco, che gestisce la centrale nucleare, si sono unite per misurare da sole le radiazioni. Hanno messo da parte quasi seicento euro per comprare il primo contatore geiger, cui ne sono seguiti altri, e registrare i risultati dei rilievi.
Il gruppo conta quindici membri fissi e un numero crescente di persone, tra cui padri e nonne, che partecipano incuriositi a incontri e attività. Si sono date un nome, Action Mama, si riuniscono nei bar o al primo piano dell’edificio che ospita la sede di un giornale locale, l’Hibi Shimbun, divenuto noto nei mesi successivi all’incidente per l’impegno dei suoi giornalisti nel seguire il rischio nucleare.
“L’economia e la salute dei bambini seguono binari opposti. Noi vogliamo proteggere i nostri figli e la nostra famiglia”, spiega Kaori, “senza dover lasciare questa città. Anche se siamo al confine con l’area di evacuazione dal reattore, la radioattività di Iwaki è più bassa di quella della prefettura di Chiba, a sud. Ma non possiamo limitarci a questi dati”.
Non convincono i limiti imposti dalle autorità giapponesi, che subito dopo l’esplosione di Fukushima hanno spostato la dose legale massima di radioattività da 1 a 20 millisievert l’anno, corrispondente allo standard di sicurezza per i lavoratori nel settore nucleare in molti paesi.
Il fatto che questa quantità sia stata estesa senza distinzioni anche ai bambini continua a far discutere gli esperti e la popolazione. Anche sul limite di 500 becquerel di cesio 134 e 137 per chilo, fissato dal ministero della Salute per verdura, carni, pesce e uova, e di 200 per latte, derivati e altri vegetali, rimangono dubbi: “Assurdo. Vuol dire che i bambini giapponesi possono tollerare quantità più alte rispetto agli altri bambini del mondo?"
"Vogliamo che le persone capiscano davvero il significato delle misurazioni e, se davvero sicuro, imparare a convivere senza paura con questo nemico invisibile”.
Con l’aiuto di associazioni umanitarie, le Action Mama hanno organizzato nel mese di agosto gite per i bambini in altre aree del Giappone, dove l’aria è meno inquinata, e incontri con esperti sulla radioattività e le precauzioni da prendere ogni giorno per limitare l’esposizione. Ora stanno mandando richieste alle amministrazioni locali per avere analisi sistematiche di sangue e urine dei bambini.
Gruppi di genitori vengono mandati nella vicina città di Fukushima per imparare dai tecnici a maneggiare anche gli strumenti più complessi che servono per rilevare la contaminazione del cibo. Grazie alle donazioni di aziende ed enti privati e religiosi l’associazione hanno comprato il primo di questi strumenti al costo di 3 milioni di yen (quasi 21mila euro).
Intanto, anche gli studenti delle scuole elementari e medie hanno fatto sentire la loro voce e con altri coetanei della prefettura di Fukushima hanno inviato 40 lettere al governo giapponese. Chiedono di avere chiarimenti sui rischi che stanno veramente correndo nella loro città e se devono andarsene, come hanno fatto alcuni loro amici.
Agricoltura e turismo in ginocchio
Quella delle Action Mama non è l’unica associazione che ha preso l’iniziativa per colmare le lacune delle autorità giapponesi e far ripartire Iwaki.
Messi in ginocchio dall’esplosione e dalla contaminazione di cesio radioattivo, i coltivatori di Iwaki si ritrovano e dibattono su che cosa fare dei propri terreni. “Dall’incidente non vendo più nulla”, racconta Ryuko Namatane mentre mostra il suo campo, quasi un ettaro e mezzo coltivato principalmente a riso.
“A maggio le autorità giapponesi hanno detto che le coltivazioni erano sicure. Ma per paura la gente ha cominciato a comprare al supermercato, assicurandosi che i prodotti non provenissero da aree contaminate. E non so quanto di quello che sta crescendo qui si potrà mangiare”.
Per determinare se il riso si può consumare bisogna aspettare la stagione del raccolto, da settembre, e verificare quanto hanno assorbito le piante. “Vorrei che i miei figli e i miei nipoti continuassero a prendere gli ortaggi da me, come hanno fatto finora. Ma mi chiedo se farei mangiare loro una carota da 195 becquerel di cesio”.
La ripresa è lenta anche per il settore del turismo. Nota soprattutto per le sue terme e gli impianti ricreativi, Iwaki deve fare i conti con i danni delle due forti scosse dell’11 marzo e dell’11 aprile, lo tsunami e l’immagine di una città radioattiva.
Da ottobre è prevista la riattivazione, con organico ridotto, del parco di divertimenti acquatico Spa Resort Hawaiians, chiuso dopo il sisma. Da quasi due mesi è stato riaperto anche l’acquario Acquamarine Fukushima, una delle principali attrazioni della città.
“Il numero dei visitatori è crollato di oltre il 50 percento”, spiega il direttore Yoshitaka Abe. “Ma vorrei impegnarmi per trasformare questo posto in un simbolo di rinascita di Iwaki”.
GLI EFFETTI DELLO TSUNAMI
Hanamaki e Kamaishi, 2011
La prima vista dei territori distrutti dallo tsunami fu nella città di Kamaishi nel 2011. Arrivata con un autobus notturno da Fukushima fino alla città di Hanamaki, nell’entroterra, attraverso con un treno locale le distese montuose che si aprono verso la costa. All’improvviso il verde delle risaie e delle piante lascia spazio al grigiore di un mare torbido e agitato. È l’ultima fermata della ferrovia lasciata intatta dall’onda.
Uscendo dalla stazione percorro a ritroso la risalita dell’acqua. L’impatto con gli effetti della distruzione è graduale: mano a mano che ci si scende verso il mare file di case segnate e sventrate dall’onda lasciano spazio a scheletri d’abitazioni e grovigli di fili e detriti. Al porto non restano che carcasse d’edifici e navi.
La prima persona che incontro per strada è un prete che sta sistemando alcune travi della propria chiesa, in parte ancora in piedi. Mentre mi racconta la propria fortuna nell’essere sopravvissuto allo tsunami, arriva un gruppetto di tre anziani. Vengono a raccogliere cibo e vestiti, aiuti che arrivano da alcune associazioni di volontari per le vittime dello tsunami. Due di loro parlano delle coltivazioni di alghe alimentari, un terzo faceva il pescatore. Tutte le attività sono state interrotte dopo l’11 marzo e queste persone hanno perso ogni fonte di sostentamento.
Seguo alcuni di loro mentre salgono all’ultimo piano di un ospedale appoggiato alla collina vicina. I reparti sono rimasti intatti, per questo servono ora come rifugio per i sopravvissuti. Le stanze sono state trasformate in piccoli accampamenti per chi ha perso ogni cosa. Dal tetto getto un ultimo sguardo su quel che resta della città, mentre le ruspe continuano demolizioni.
Verso sera riprendo il treno per Hanamaki, dove rimango per la notte, ospite di un giornalista giapponese e della moglie, conosciuti sul posto.
IN VIAGGIO VERSO LA COSTA
2012 (dal calendario di Paola Ghirotti, “Mani”)
In bella vista tra gli scaffali di una stazione di servizio della strada che collega la città di Hanamaki, nell’entroterra, a quella costiera di Kamaishi, si trova la nuova edizione del libro di Tono monogatari. Si tratta di una raccolta di leggende sul nordest del Giappone che lo studioso Yanagita Kunio ha scritto e pubblicato nel 1910, poco più di cent’anni prima della catastrofe che ha colpito l’area l’11 marzo 2011.
Era difficile immaginare il significato che avrebbe avuto il libro un secolo dopo. Vi sono descritte le verdi montagne che abbracciano le coste frastagliate e la bellezza dei villaggi in riva al mare del Tohoku, che in giapponese significa proprio nordest.
Alla voce tsunami l’indice rimanda alla storia numero 99, che racconta di un uomo, Fukuji, che ha perso la moglie e uno dei figli a causa dell’onda che si è riversata nell’area nel 1896. Nel racconto l’uomo si accampa con i bambini in un rifugio costruito sulle rovine della propria casa e una notte vede il fantasma della moglie assieme all’uomo di cui era innamorata prima del matrimonio. Per il dispiacere l’uomo cade in malattia per molti anni.
Al di là delle singole storie di fantasmi e di sogni maledetti emergono anche particolari e frammenti con i quali si ricostruisce la vita e le preoccupazioni nelle prefetture colpite dalla catastrofe dell’11 marzo, e si trovano alcune somiglianze con le vicissitudini odierne.
Gli splendidi scatti a un anno dal disastro nelle città di Minamisanriku e Rikuzentakada, due città del Tohoku scomparse a causa dello tsunami, contribuiscono a tenere vivo il collegamento storico e geografico con le storie descritte da Kunio. L’abile mano di Paola Ghirotti dà testimonianza da un lato della devastazione dell’acqua e dall’altro individua nei frammenti lasciati dal mare i segni di un possibile rifiorire dell’area.
I brandelli di filamenti e stoffe che pendono dagli scheletri di ferro e di cemento dei pochi edifici rimasti nelle città costiere più colpite interrompono la distesa delle fondamenta delle abitazioni portate via dal mare, che rendono per certi tratti le città simili a estesi siti archeologici a cielo aperto.
I blocchi di cemento armato che limitavano il porto o sostenevano le dighe sono stati frantumati e trascinati per metri. Sulle colline che bordano le aree pianeggianti si scorgono ancora i segni del livello dell’acqua e qualche imbarcazione o automobile sollevata dal mare.
L’onda non ha risparmiato nemmeno i luoghi di culto, rompendo tombe e decorazioni di marmo e granito, templi e santuari. La maggior parte dei detriti è stata rimossa e accumulata ai margini della città dove si fanno le ultime differenziazioni, prima che ruspe e camion portino il materiale nei siti di controllo e stoccaggio.
Camminando tra le strade ripulite da fango e detriti si possono immaginare le strutture delle abitazioni. Dalle mattonelle colorate si distinguono le stanze della casa, come l’ofuro (stanza per fare il bagno), da vestiti o lattine e scatole di alimenti logore accantonate si riconoscono negozi di vestiti o mini-market.
Avvicinandosi ai cumuli informi di detriti qualche bagliore attira lo sguardo; avvicinandosi si vedono cd, fotografie, maglie e scarpe e altre tracce di una quotidianità strappata all’improvviso e sigillata dalla salsedine.
Qualcuno ha recuperato statue e pupazzi che ha poi riposto ordinatamente in qualche angolo delle strade, usandole come oggetti di preghiera in piccoli altarini accanto ai resti delle abitazioni delle persone care.
Qua e là, tra il colore marrone e grigio del terriccio salmastro si scorgono i pochi pini rimasti, ridotti a tronchi disidratati che svettano a baluardo della forza di resistere della natura. Il simbolo di questi alberi è l’Ippon-matsu, l’unico pino rimasto lungo la costa della città di Rikuzentakada, dopo che gli altri 70mila sono stati portati via dall’acqua.
Ora gli è stato costruito attorno un recinto sacro ed è diventato meta dei sopravvissuti e visitatori della distesa vuota dove sorgeva la città. I suoi semi sono stati raccolti e conservati con la speranza di fare nascere altri alberi da piantare nella nuova città che sorgerà.
HANAMAKI E OTSUCHI
Nei giorni successivi al terremoto girava in rete la poesia di Kenji Miyazawa, uno dei più noti e amati poeti della prefettura di Iwate: “Non arrenderti alla pioggia”.
La poesia è un’esaltazione della capacità di sopportare le avversità, un inno alla vita usato per dare coraggio dopo il disastro. Al risveglio visito i dintorni dell’abitazione, e mi ritrovo di fronte all’iscrizione alla poesia e al monumento in onore dello scrittore, che è vissuto proprio ad Hanamaki.
Finiti i preparativi parto per la città di Otsuchi, una delle più colpite dall’onda anomala dell’11 aprile, e resto alcune notti nell’accampamento ricavato in una ex scuola.
2013 Gli sfollati dallo tsunami sono passati dai rifugi delle scuole, delle palestre o ospedali abbandonati, alle case nei container molto meno costosi, con cui hanno formato veri e propri paesi nell’entroterra delle coste colpite dallo tsunami.
In alcune di queste nuove città ci sono intere vie di negozi costruite in questi moduli. Il problema è che anche nel caso giapponese non si sa fino a quando le persone dovranno rimanere in queste strutture temporanee dato che le amministrazioni continuano a procrastinare le date.
Le persone, molte delle quali anziane, faticano a vivere in questi spazi ae in soli due anni non sanno più dove sistemare le proprie cose. Già un anno fa sono stati aggiunti vani esterni alle case, ma non bastano più. Come nel caso italiano è aumentato l’uso di psicofarmaci.
Nella città di Ishinomaki le prime case definitive per gli sfollati, ideate da equipe di docenti d’architettura di Tokyo. Nella città di Kamaishi lo studio dell’architetto Toyo Ito sta portando avanti progetti per ricostruire interi villaggi. Le strutture e i dettagli delle nuove case vengono decise attraverso una serie di incontri tra le persone del posto, soprattutto pescatori, con i progettisti venuti dalla capitale.
VERSO NORD, L’INCERTO FUTURO DI ROKKASHO
Rokkasho, 2012
Il cambio di velocità per arrivare all’estremità nordorientale della prefettura di Aomori è stato graduale, e puntuale. Prima il treno proiettile a centinaia di chilometri orari da Tokyo, poi le locomotive locali che trascinano due, tre carrozze.
Infine l’auto che procede a passo d’uomo sotto una tempesta di neve. Questa parte dell’isola non è collegata con la rete ferroviaria e il servizio di autobus è pressoché inesistente. Dalla più vicina stazione, quella di Misawa, non resta che raggiungerla con le quattro ruote. “Qui si parlava di portare l’alta velocità (lo Shinkansen), ma poi hanno fermato tutto, non si sa perché”, spiega il tassista, un uomo sulla sessantina che si offre di arrivare fino all’impianto, nonostante una forte nevicata renda impercorribili le strade.
All’improvviso si intravede un cancello sorvegliato e metri di filo spinato. L’uomo comincia allora a parlare in inglese per spiegare che lì si trova la base americana di Misawa dove spesso si porta i soldati e famiglie.
Infine passa orgoglioso a qualche parola in francese. A quanto pare, trattandosi di nucleare, i francesi sono tra i clienti più frequenti di questa tratta.
Dopo circa un’ora di macchina tra strade e boschi innevati si intravede una serie di caseggiati, bianchi, nuovi. Ancora qualche fabbricato industriale e l’insegna di un supermercato. L’arrivo a Rokkasho, una città affacciata sull’oceano Pacifico, fa pensare a un posto dimenticato da Tokyo.
Questo posto doveva essere la soluzione per il problema delle scorie radioattive dalle centrali del paese, un posto in cui stoccare e trasformare il materiale in nuovo combustibile. Ma il suo futuro è ancora incerto.
Intanto, attorno a questo complesso di rigenerazione si sono costruiti centri di ricerca e si sono sviluppate altre attività più o meno direttamente legate al nucleare, che hanno trasformato Rokkasho in un polo d’attrazione per studiosi e lavoratori da tutto il Giappone e stranieri.
Rokkasho racchiude già nel nome l’origine della città, nata nel periodo Meiji (1868-1912) dall’unione di sei (roku) villaggi. Ha una superficie più estesa della Repubblica di San Marino, ma una popolazione di poco più di 11mila abitanti.
Fino gli inizi del secolo scorso era una zona talmente povera, vivendo di solo allevamento e pesca, da essere chiamata la Manciuria del Giappone.
Finché negli anni ottanta è stata designata come la sede per la creazione degli impianti di riprocessamento delle scorie nucleari, e si sono cominciati a costruire fabbriche ed edifici. Tanto che nel 2008 lo stipendio medio annuale di un lavoratore di Rokkasho arrivava a 125mila euro, sei volte superiore rispetto a quello degli abitanti della restante prefettura di Aomori in cui si trova la città.
Oggi è una riserva d’energia talmente importante, che se il Giappone dovesse restare senza elettricità i suoi serbatoi di carburante e i 70 impianti eolici da 1 MW ciascuno sarebbero in grado di mantenere l’intero paese per una settimana.
Subito dopo l’emergenza del terremoto e alla centrale di Fukushima, sono entrati in azione per qualche giorno. Dal centro alla periferia dell’intera città di Rokkasho si vedono pannelli solari nelle abitazioni, pale eoliche agli angoli delle strade, mentre cartelloni pubblicitari ricordano l’importanza di risparmiare energia nelle abitazioni.
“Qui la qualità della vita è molto alta”, conferma Giuseppe Pruneri, coordinatore di un progetto euro-giapponese per lo sviluppo di un prototipo d’acceleratore a Rokkasho. “È tutto bene organizzato, ci sono spazi ricreativi e verdi per adulti e bambini. Anche se di bambini non ce ne sono molti, a dire il vero. Io ogni sabato corro lungo perimetro dell’impianto di riprocessamento di Rokkasho. Sono esattamente 22 chilometri, quasi una mezza maratona”.
Il posto a prima vista sembrerebbe un modello di virtuosa città ecologica se proprio nel sottosuolo di questo complesso non si trovassero stoccate tonnellate di scorie radioattive provenienti dalle centrali del paese, compresa Fukushima Daiichi. Poco più a nord di Rokkasho si trova il deposito di Mutsu, in cui 3mila tonnellate di combustibile spento è pronto a essere rivestito e immagazzinato in attesa di nuova sistemazione.
Da anni l’ambizioso progetto di Rokkasho è quello di riutilizzare tutto il plutonio residuo della fissione nucleare in Giappone per unirlo con l’uranio e creare il cosiddetto MOX (Mixed Oxide Fuel), un combustibile che alcuni esperti ritengono più costoso e pericoloso.
“Noi riteniamo che il MOX sia sicuro”, spiega un portavoce del Japan Nuclear Fuel Centre che gestisce il progetto. “Il fatto che contenga plutonio rende il livello di radioattività più alto, ma prendiamo le dovute misure di sicurezza perché non abbia conseguenze nell’ambiente circostante. Bisogna anche tener presente che il MOX viene usato da 40 anni con successo in tutto il mondo”.
L’impianto di Rokkasho, iniziato nel 1993 doveva essere terminato nel 1997, ma la sua inaugurazione è stata rimandata finora per venti volte. Il 29 febbraio del 2012 la Japan Nuclear Fuel che gestisce il centro ha annunciato che per problemi tecnici i test preliminari per l’apertura sarebbero slittati di alcuni mesi.
Secondo gli ultimi aggiornamenti, il centro avrebbe dovuto entrare in funzione a ottobre del 2013. Ora, secondo le autorità, dovrebbe entrare in funzione a ottobre di quest’anno.
E intanto le spese preventivate per la realizzazione continuano ad aumentare. “I costi finora sono quasi triplicati, siamo arrivati a 20 miliardi di euro. Da adesso in poi ne serviranno altri 180 miliardi e forse non basteranno. Ma il Giappone è a secco”, aveva spiegato nel 2012 Satoshi Kamata, giornalista che da anni si occupa di Rokkasho.
“Il sogno di riprocessare il combustibile nucleare è un fallimento”, aveva dichiarato in un’intervista all’Asahi Journal Hiroaki Koide, professore del Research Reactor Institute dell’università di Kyoto.
Il motivo di questo insuccesso, secondo Koide, sta nel fatto che l’energia nucleare non è nata per scopi civili, ma militari e la quantità di plutonio 239 necessaria per il rigeneratore di Rokkasho è di circa 20-30 punti percentuali superiore a quella necessaria per costruire armi nucleari. Un livello difficile da raggiungere.
“Per ora sono solo miliardi di yen buttati nella fogna”. C’è inoltre da considerare il rischio di un terremoto o uno tsunami, come quelli dello scorso 14 marzo, che, nonostante la solidità della costruzione, rischiano di causare una nuova catastrofe umana e ambientale. Inoltre, anche se l’impianto è stato disegnato per consumare l’80 percento del combustibile esausto degli altri reattori in Giappone, i continui ritardi nella sua attivazione e le dimensioni ridotte del progetto fanno pensare che bisogna d’urgenza trovare altre soluzioni per le scorie accumulate finora nel paese.
Anche se il nuovo governo giapponese sembra pronto a far ripartire i reattori, nonostante Fukushima, il futuro del nucleare nell’arcipelago rimane incerto, come quello di Rokkasho.
Di fronte alle critiche e allo scetticismo degli esperti, il Japan Nuclear Fuel Centre risponde deciso.
“Noi non abbiamo intenzione di cambiare i nostri piani. Dall’incidente di Fukushima non abbiamo più ricevuto combustibile spento da quella centrale, ma aspettiamo fiduciosi la decisione del governo. Il Giappone è un paese povero di fonti di energia, come l’Italia, ed è necessario contare su tutti i tipi di energia possibili, incluso quella nucleare. In questo senso si può dire che il riprocessatore sia necessario per la sicurezza dell’ambiente e per preservare le risorse energetiche”.
Alcuni temono che se il progetto non dovesse andare avanti, ci potrebbero essere conseguenze per il futuro dell’intera città di Rokkasho. Per questo l’industria locale si sta diversificando. “Qui si stanno portando avanti anche altri progetti”, spiega Tsuyoshi Suzuki, direttore generale del centro di ricerca e sviluppo del Japan Atomic Energy Agency di Aomori, slegato dall’impianto di fissione, e dove ci si occupa solo di fusione e ingegneria termoidraulica.
“Anche se si dovesse fermare la produzione di energia nucleare in Giappone, non penso che questo avrebbe conseguenze sul destino della nostra attività e dell’intera città”.
Ma se si considera che nel solo nuovo impianto lavorano 300 persone, oltre a quelle dell’indotto che lo alimenta, si capisce quanto sia importante per l’area che il complesso cominci a funzionare. In una città in cui l’opposizione al progetto, a partire dall’amministrazione locale compatta in difesa del nucleare, è quasi inesistente, sono in molti a continuare a sperare che quello di Rokkasho sia la via del futuro.
Per ora tuttavia, rimane solo il simbolo di un’energia nucleare sempre più ingombrante e difficile da collocare.
[Parti di questo reportage sono state pubblicate sul Fatto quotidiano online e sono diventate un reportage audio per Rai Radio3; Le foto sono di Alessia Cerantola.]*Nipponista e giornalista, si occupa professionalmente di Giappone ed Estremo oriente dal 2000, ma per passione da sempre. E’ cofondatrice e reporter dell’Investigative reporting project Italy (Irpi). Ha studiato giornalismo al master dell’università di Torino e ha lavorato all’Ansa e poi alla Camera di commercio italiana di Tokyo. Nel 2012 ha vinto il Premio per la libertà di stampa 2012 di Reporter senza frontiere e Unesco (Austria). Nel 2013 è stata Transatlantic media fellow presso il Centro di studi strategici e internazionali di Washington DC.